Belarmino andava a messa due volte l’anno: a Pasqua e a Natale.
Riconosceva che non ci fosse nulla di particolarmente originale nella
cosa, ma la consapevolezza di essere in numerosa compagnia lo
confortava. La banalità degli eventi non si fermava qui: in conformità
agli usi e costumi della maggioranza dei suoi civili correligionari
(correligionari?) sbuffava di noia al pensiero del rito già dalla sera
precedente, si alzava tardi al mattino, sbuffava nuovamente, si vestiva
con la più elegante sobrietà possibile e si recava in chiesa in tempo
per la più affollata delle due funzioni mattutine – che, per sua
fortuna, era quella più tarda. O forse non si trattava di fortuna. Forse
la maggioranza dei suoi civili correligionari amava dormire fino a
tardi.
- Senza forse. Ricordati di santificare le feste, ma solo quando il sole
è già ben alto. Se è vero che il sole è l’occhio di Dio, non vale la
pena di cominciare a darci da fare quando ancora è troppo basso per
vederci bene.
L’edificante sofisma non proveniva dalla sua coscienza, come si sarebbe
potuto supporre, ma era un’elaborazione di un suo ciarliero compare di
bevute dei tempi del liceo, ormai impolverata da qualche quinquennio.
Belarmino accettò la spiegazione come valida, per quel tanto che poteva
fregargli.
- A catechismo dovevi essere una specie di primo della classe.
- Mah, in genere frequentavo poco. In curiosa coincidenza con le lezioni
mi capitava spesso di soffrire di inspiegabili ed abbondanti epistassi.
La maestra divenne sospettosa e alla fine fui costretto a confessarle
che avevo le stimmate nei seni paranasali. Non fu particolarmente
colpita.
Pasqua era in genere meglio di Natale per una valida, anzi decisiva
ragione: il clima. Perché non c’era nessuna lontana parvenza di
profondità spirituale nei cento minuti annuali che Belarmino dedicava a
nostro Signore: a lui, che era in fondo un uomo semplice, interessava
unicamente la figa. Da tempo aveva intuito come le chiese, nei due
giorni di punta, ne celassero un quantitativo non indifferente.
Folgorato ancor giovane sulla via di Damasco, si dedicava ormai da anni a
quella piacevole caccia, che tanta soddisfazione gli dava.
Pasqua era il periodo migliore. La primavera era tiepida, qualche volta
-se la festa cadeva alta- addirittura calda. Le gonne si accorciavano,
le giacche si aprivano. Belarmino si infilava in un altare laterale e
con gli occhi accarezzava, col massimo della discrezione possibile, i
volti le gambe i culi le tette più invitanti. Il popolo di Dio faceva
del suo meglio per non mostrarsi economicamente pezzente al resto del
branco, e le femmine -specie le più giovani, Iddio le benedica- si
inguainavano volentieri in tacchi alti e magliette chiare.
Belarmino non aveva fretta: soppesava con calma i pro e i contro di ogni
capo di bestiame, godendo del sottile senso di blasfemia che emergeva
ogni volta. Statisticamente in genere era durante la predica, mentre
tentava di indovinare quale fosse la faccia più annoiata (ardua
tenzone), che trovava la sua Beatrice di turno. Allora si rilassava e
attendeva in grazia la fine della funzione. Fra poco, sul sagrato,
avrebbe avvicinato la vittima e cominciato a prepararla per consentirgli
di entrare al più presto in comunione con la sua personale divinità
triangolare.
Era un vero devoto, lui.
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