lunedì 28 aprile 2014

L'arbitro (Paolo Zucca, 2009/2013)





Nel 2009 il cagliaritano Paolo Zucca gira un curiosissimo cortometraggio che in quindici minuti scarsi concentra spericolatamente un gran numero di eterogenee suggestioni: stereotipi bucolici in generale e sardi in particolare si fondono con estetica dadaista, richiami a Ciprì e Maresco (tra cui il b/n è forse la caratteristica meno marcata), echi di Osvaldo Soriano e cupi riferimenti biblici, il tutto su un substrato costituito dal sempiterno gioco del futbol (o meglio, di quello che passa per tale nelle estreme periferie del dilettantismo). Nel corto -che merita almeno una visione, quantomeno in premio all'originalità- un arbitro corrotto (Luca Pusceddu) retrocede per punizione dalle stelle dell'UEFA alle stalle della terza categoria, dove finisce ad arbitrare una partita tra due squadre che è in realtà somatizzazione di una faida tra borgate; nel frattempo proprio in uno dei due team si consuma il dramma di due pastori che -anche se compagni di squadra- sono a loro volta in guerra tra loro.

Il corto è apprezzatissimo (fa incetta di premi anche all'estero) e nel 2013 Zucca lo dilata fino all'ora e mezza riempiendolo anche con nomi di spicco (Accorsi -che prende il posto di Pusceddu-, Pannofino, Di Clemente, la Cucciari, Messeri). La storia raccontata nel corto viene rigirata in modo praticamente identico e diventa il finale, così che tutti i settantacinque minuti precedenti servono nei fatti a costruire una cornice un po' più corposa alla partita. L'arbitro assume così una personalità più dettagliata, la faida tra i paesi assume un respiro più ampio e molto spazio viene dato a personaggi singolari e spesso inediti rispetto al corto (il bomber Matzutzi che torna dall'argentina, il coach cieco dell'Atletico Pabarile e la di lui figlia, il fetentissimo arbitro Mureno).

Divertente, piuttosto insolito e molto ben girato, con un b/n splendido. Gli appassionati di Osvaldo Soriano non mancheranno di notare un esplicito riferimento al grandioso racconto Il rigore più lungo del mondo. Alcuni dialoghi sono purtroppo in sardo e non si capisce un cazzo, ma sono solo due o tre e comunque il senso generale del discorso è comprensibile.

domenica 20 aprile 2014

Il senso del sacro

Belarmino andava a messa due volte l’anno: a Pasqua e a Natale. Riconosceva che non ci fosse nulla di particolarmente originale nella cosa, ma la consapevolezza di essere in numerosa compagnia lo confortava. La banalità degli eventi non si fermava qui: in conformità agli usi e costumi della maggioranza dei suoi civili correligionari (correligionari?) sbuffava di noia al pensiero del rito già dalla sera precedente, si alzava tardi al mattino, sbuffava nuovamente, si vestiva con la più elegante sobrietà possibile e si recava in chiesa in tempo per la più affollata delle due funzioni mattutine – che, per sua fortuna, era quella più tarda. O forse non si trattava di fortuna. Forse la maggioranza dei suoi civili correligionari amava dormire fino a tardi.
- Senza forse. Ricordati di santificare le feste, ma solo quando il sole è già ben alto. Se è vero che il sole è l’occhio di Dio, non vale la pena di cominciare a darci da fare quando ancora è troppo basso per vederci bene.
L’edificante sofisma non proveniva dalla sua coscienza, come si sarebbe potuto supporre, ma era un’elaborazione di un suo ciarliero compare di bevute dei tempi del liceo, ormai impolverata da qualche quinquennio. Belarmino accettò la spiegazione come valida, per quel tanto che poteva fregargli.
- A catechismo dovevi essere una specie di primo della classe.
- Mah, in genere frequentavo poco. In curiosa coincidenza con le lezioni mi capitava spesso di soffrire di inspiegabili ed abbondanti epistassi. La maestra divenne sospettosa e alla fine fui costretto a confessarle che avevo le stimmate nei seni paranasali. Non fu particolarmente colpita.

Pasqua era in genere meglio di Natale per una valida, anzi decisiva ragione: il clima. Perché non c’era nessuna lontana parvenza di profondità spirituale nei cento minuti annuali che Belarmino dedicava a nostro Signore: a lui, che era in fondo un uomo semplice, interessava unicamente la figa. Da tempo aveva intuito come le chiese, nei due giorni di punta, ne celassero un quantitativo non indifferente. Folgorato ancor giovane sulla via di Damasco, si dedicava ormai da anni a quella piacevole caccia, che tanta soddisfazione gli dava.
Pasqua era il periodo migliore. La primavera era tiepida, qualche volta -se la festa cadeva alta- addirittura calda. Le gonne si accorciavano, le giacche si aprivano. Belarmino si infilava in un altare laterale e con gli occhi accarezzava, col massimo della discrezione possibile, i volti le gambe i culi le tette più invitanti. Il popolo di Dio faceva del suo meglio per non mostrarsi economicamente pezzente al resto del branco, e le femmine -specie le più giovani, Iddio le benedica- si inguainavano volentieri in tacchi alti e magliette chiare.
Belarmino non aveva fretta: soppesava con calma i pro e i contro di ogni capo di bestiame, godendo del sottile senso di blasfemia che emergeva ogni volta. Statisticamente in genere era durante la predica, mentre tentava di indovinare quale fosse la faccia più annoiata (ardua tenzone), che trovava la sua Beatrice di turno. Allora si rilassava e attendeva in grazia la fine della funzione. Fra poco, sul sagrato, avrebbe avvicinato la vittima e cominciato a prepararla per consentirgli di entrare al più presto in comunione con la sua personale divinità triangolare.
Era un vero devoto, lui.


su ldcds

martedì 15 aprile 2014

L'amore ai tempi delle foglie morte

Ieri notte, già disteso, faticavo a prendere sonno. Dicono che non si dovrebbe andare a dormire prima di avere molto sonno, non farebbe bene (?) stare a letto svegli, ma insomma è andata così. Mentre stavo lì senza costrutto, evitando di contare pecore, mi è tornato in mente un fatto capitato ormai più di quindici anni fa. Ero in quarta o quinta superiore (1998~2000), stavo in un corridoio del caro vecchio istituto Camillo Golgi (in quel di Brescia, come qualcuno sa) nell'ora di ricreazione, perdendo tempo coi miei pari. Mi si avvicinò un drappello di giovini ambasciatrici che non conoscevo (non ricordo quante, credo un paio o due) e una mi disse che una loro compagna mi voleva conoscere. Risposi “no grazie” e tagliai la corda.

Non ripensavo all'evento da una rispettabile quantità di anni. Personalmente, propendo molto per l'idea che mi si stesse giocando uno scherzo; non capivo allora, e capisco ancor meno ora, i motivi per cui avrei dovuto apparire interessante agli occhi di una qualsivoglia sconosciuta. Chissà se questa fantomatica ragazza esisteva davvero, e in tal caso chissà cosa avrà pensato nel vedermi schizzare a velocità warp verso altri corridoi. Le avrò spezzato il cuore? Che deliberata crudeltà da parte mia! Ma è più probabile che si sia resa conto di quale ineguagliabile testa di cazzo sia il sottoscritto e abbia tirato un sospiro di sollievo nel capire il madornale errore che stava facendo.

Il caso in assoluto più inverosimile: se avessi detto “Sì, presentatemela” avrei potuto trovare l'amore e la conseguente felicità. Fantascienza al quadrato. Lo ammetto: non ho veri rimorsi, ma un po' di curiosità sugli eventi mi è rimasta. Per cui: se all'ascolto c'è una ragazza che a fine anni '90 frequentava il Golgi, in una classe (non so quale) nell'ultimo corridoio al piano inferiore, e questa ragazza riconosce questa triste storia (magari perché è una delle ambasciatrici, o addirittura la fantomatica infelice delusa) e sa qualcosa, mi scriva pure due righe. Sarò riconoscente.