lunedì 7 ottobre 2013

Un uomo

Il momento peggiore era il rientro perché lo accompagnava sempre il sordo terrore che la finestra potesse essere chiusa. In linea teorica non era possibile, perché nessuno entrava mai nello sgabuzzino di notte; ma non si poteva mai dire. Con l'unica via d'entrata sbarrata sarebbe stato costretto a scoprirsi.
Ma anche quella notte dopo la consueta arrampicata sul muro ritrovò l'anta scostata di qualche centimetro, come l'aveva lasciata andandosene. Rientrò in casa, e si lasciò cadere seduto sul pavimento. Accese la sigaretta numero ventimila di quella notte. L'alba non era troppo lontana.
In genere una volta al mese, forse due, nelle prime ore piccole e con la famiglia già in preda a Morfeo, si alzava e si rivestiva. Si infilava nello sgabuzzino, apriva la sua via di fuga, scendeva lungo la parete e si avviava a piedi verso una stanza a duecento metri da lì. Una stanza con un letto non suo, e non vuoto, e non di riposo.
Non era certo una passeggiata gestire un tradimento, si disse. Richiedeva parecchia nicotina in più.
Terminò la cicca e la gettò verso l'alto all'indietro, fuori dalla finestra. Un gesto esperto, ormai. Si rialzò e chiuse il battente.

Entrò silenziosamente nella stanza -la porta era come sempre socchiusa- e si appoggiò allo stipite per guardare le sue numerose figlie. Nel buio non poteva quasi vederle, ma la stanza era chiara nella sua mente. Leonor, Veronica, Ginevra, Sara. Nemmeno un maschio. In passato si era spesso chiesto se fosse questa la causa, o una delle cause, che lo avevano reso fedifrago, ma ormai aveva capito che non era così. Le amava tutte con tutto sé stesso, e non sentiva la mancanza di alcunché. Al ritorno da ogni fuga si fermava nella loro stanza ad osservarle e a misurare la propria dignità contro la loro innocenza. Il paragone non era mai risolutivo: al più presto sarebbe fuggito di nuovo, se ne rendeva conto. Non provava neppure più a trovare scuse.
Passò la mano sui capelli di Leonor (sette anni, e un sonno come un macigno), la più vicina, idealmente allargando questo gesto a tutte e quattro: era l'ultimo rituale di quelle notti eterne.

La stanza attigua era la sua. La moglie, inconsapevole (sul serio, sì?), nella stessa posizione in cui l'aveva lasciata. Il suo respiro regolare muoveva lievemente la coperta; dormiva, o fingeva di dormire. Da tempo lui si era convinto che era assurdo pensare che non si fosse mai accorta proprio di nulla, ma non aveva mai fatto trapelare niente nei suoi atteggiamenti verso di lui: una cosa che in qualche modo lo feriva. Si spogliò e si infilò cautamente sotto le coperte, mentre gli abituali sensi di colpa cominciavano ad affiorare per avvelenargli il breve sonno che poteva ancora permettersi.


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