mercoledì 30 gennaio 2013

Stefano Bequadro

2013: dal 12 febbraio inizia il Festival di Sanremo. Dopo oltre tre lustri sul palco sbarcano di nuovo gli eredi dei Rockets, ovvero Elio (Stefano Belisari) e le Storie Tese. Una delle due canzoni che porteranno in gara si intitola Canzone mononota ed è costruita tutta su una sola nota, il do.


1982: Stefano Benni pubblica il bellissimo romanzo Terra!, in cui compare:
C'erano i Do, seguaci del compositore tedesco Kurt Storen che diceva che solo il do è una nota musicalmente espressiva, e componeva tutte le sue opere su questa unica nota.

Stefano B. cita Stefano B. Consapevolmente?
Ci sarà da divertirsi.

domenica 20 gennaio 2013

Perimetri

Una cosa che la divertiva era entrare nelle proprietà private altrui e scorrazzarvi in lungo e in largo, quando la vita che percorreva solitamente quei luoghi -se esisteva- era altrove e nessuno poteva vederla. Trovava varchi nei recinti con un sesto senso che più di un ladro esperto le avrebbe invidiato, sovente si infilava nelle pieghe di una rete o nella crepa di un muro contorcendo abilmente il suo corpo minuto. Sapeva dell’esistenza di quelli che si divertivano a correre e arrampicarsi per le strutture della città (uno di loro, nel breve volgere di una effimera relazione che ora ricordava con disagio, le aveva insegnato il termine, "parkour"), ma lei non cercava quello che cercavano loro. Né le interessavano i beni materiali che qualche volta i proprietari arrivavano a proteggere con cartelli di "Attenti al cane" (e ogni tanto i cani c'erano davvero). E neanche il vago brivido illegale della violazione di proprietà privata.
Quello che la interessava in quei luoghi di silenzio, fossero case cantieri discariche o che altro -cartoline verdi e grigie da videogioco postatomico-, non l'aveva ancora capito nemmeno lei. Forse era un banale piacere terreno, un poco infantile, cui non sapeva dare un nome preciso. Ma non era importante. Si rialzò da terra dopo aver strisciato sotto metri di filo spinato, e scrollandosi di dosso la polvere ricominciò, in un appezzamento da poco scoperto, quel suo eterno gioco senza risposte.


martedì 1 gennaio 2013

Tuvalu, 1999


Non solo Mel Brooks (Silent Movie, 1976 (in Italia maltitolato L'ultima follia di Mel Brooks)) o Michel Hazanavicius (The artist, 2011): l'epoca cinematografica recente e contemporanea, decenni dopo il tramonto del muto, porta diversi esempi di film poco o punto parlati. Nel mazzo appare anche questo sorprendente esperimento visivo ad opera del (folle?) tedesco Veit Helmer, una favola romantica quasi muta e quasi senza colori.
Tuvalu è la storia di Anton ed Eva, il primo factotum e la seconda cliente di una piscina pubblica un tempo prestigiosa ed ora decaduta e fatiscente. Anton si innamora di Eva dal primo momento in cui la vede, e anche lei, dapprima riluttante, comincia a ricambiare. Le cose precipitano quando il padre di Eva muore per via di un crollo nel soffitto della piscina: Anton viene accusato di negligenza, Eva gli addossa la colpa della morte del genitore, e una perizia che fa seguito alla tragedia stabilisce che lo stabile non è agibile. Anton avrà tre giorni di tempo per sistemare l'edificio e riconquistare l'amata, ma il suo perfido fratello Gregor -il vero responsabile della morte del padre di Eva- ha altri progetti, e rema contro a sua insaputa.
Dichiaratamente ispirato ad un certo cinema di tanti anni fa (Jacques Tati in primis), Tuvalu è un "oggetto" straordinariamente sperimentale. Grandissime le prove d'attori dei due protagonisti: Anton è il camaleontico e inafferrabile Denis Lavant, esponente di spicco del cinema underground francese e non solo; Eva è la singolarmente affascinante Chulpan Khamatova, attrice tatara che proprio nel '99 ottenne una certa celebrità col surreale e divertente Luna Papa (coproduzione tagico-russo-tedesca che ebbe un notevole riscontro internazionale). Gran parte del fascino del film sta anche nelle location (che, tanto per proseguire con la macedonia di nazioni, sono in Bulgaria): lo stabile della piscina è un desolante, ma a suo modo dignitoso, palazzone stile primi del '900 che non sarebbe dispiaciuto a Gilliam; gli esterni sono profondamente piatti e deprimenti. Quanto ai tecnicismi, il 99% dell'audio è occupato dai normali rumori di acqua che scorre, macchinari che lavorano, gente che cammina o si tuffa; non c'è colonna sonora, eccetto per un frammento delle Mystere des Voix Bulgares* e per Mocking Song di Goran Bregovic che commenta gli ultimissimi istanti e i titoli di coda; non c'è parlato, se non per sporadiche chiamate per nome o poche parole di valenza internazionale (un "ciao", uno "chaffeur", un "inspektor"). Per quanto riguarda il colore: c'è, ma non c'è. Tutto il girato è stato desaturato in modo da rendere il film in bianco e nero; dopodichè uno strato di colore è stato sovrapposto alle immagini, tinta che cambia in base alle ambientazioni; così tutte le riprese in esterni sono di un gelido grigio-blu, quelle nella sala della piscina gialle, nella sala macchinari rosso-arancio...
L'intero stile dona al film un'aria fiabesca e ovattata, quasi da fumetto (un po' alla Amelie). Unito ad una vicenda tutto sommato lineare, è chiaro come ci si trovi davanti ad un cinema di forma, più che di sostanza: Tuvalu non vale tanto per quello che dice, ma per come lo dice. E lo dice bene.



* Le Mystere des Voix Bulgares in realtà non sono accreditate da nessuna parte; il frammento che ho nominato tuttavia è un pezzo vocale pienamente nel loro stile, e dati gli stretti legami del film con la Bulgaria sono abbastanza convinto che il contributo sia proprio loro.