giovedì 24 maggio 2012

Una sconfitta

Questo lungo brano (lungo per gli standard di questo bleurg, s'intende) nasce originariamente per essere pubblicato su Le distorte conseguenze della saggezza, dove è apparso separato in quattro parti. La base della storia è quella del bellissimo mito greco di Orfeo ed Euridice, che ho voluto provare a riproporre in un qualche modo (un qualsiasi modo). Non sono soddisfattissimo di quello che è uscito, ma ho preso la cosa molto più alla buona di come avrei dovuto, e date le premesse poteva uscire un risultato persino peggiore.
Come di consueto ripubblico il mio materiale anche di qua, ma stavolta fuso in un unico sfiancante grumo pseudoletterario (ma comunque con le quattro parti chiaramente marcate). Se vi piace (ah, villici) fate un salto su ldcds, che ci sono Slonna e il Kire che loro scrivono mica male.
Buon divertimento.


La genesi di un recupero [i]
Per quanto si potesse far viaggiare lo sguardo dal battiscopa al soffitto e attorno alle pareti, la stanza appariva grigia e ruvida quanto un rifugio partigiano. E umida quanto una trincea in un giorno di pioggia. Essenziali i mobili, poche le suppellettili; nudi e scabri i muri, che avevano visto il loro ultimo imbianchino in tempi dimenticati ed erano lievemente ammuffiti e percorsi da rade ma inquietanti tracce di sgocciolamenti, segni verticali di gocce che erano penetrate in giorni di forte pioggia ed avevano passeggiato indisturbate verso il pavimento in cerca di un bel posto asciutto dove morire. Era l’ultimo piano, sopra di lui solo il tetto. Poteva supporre fosse fatto di carta velina, e per quel che vedeva poteva pure essere vero.
Non c’era bagno. I servizi stavano fuori, in fondo al gelido corridoio sul quale la stanza si affacciava e dal quale era separato da una porta che, soprannaturalmente in quella trascuratezza, era il solo oggetto in sorprendente buona salute. La porta avrebbe ragionevolmente difeso ogni cosa contenuta nel locale. I muri davano meno affidamento.
Un albergo poco ospitale, senza dubbio. Ma era così che voleva.
Lui, sdraiato supino sul letto, completamente vestito -solo le scarpe giacevano accanto sul pavimento- fissava il grigio soffitto sopra di sè, gomiti in fuori e mani sotto la testa: la più classica delle fisionomie, per un uomo pensieroso sdraiato sulla schiena. Era lì già da qualche ora, e c’era tutta l’apparenza che qualcun’altra ne sarebbe trascorsa prima che qualcosa mutasse nella sua posizione. Finora solo l’irregolare battito delle palpebre e il costante lavoro del diaframma indicavano presenza di vita nel suo corpo.
Passò qualche tempo, ma non poi troppo, prima che lui girasse la testa verso sinistra: la prima iniziativa che avesse preso da quando si era gettato sul letto. A sinistra stava la finestra, da cui un chiarore da cielo lattescente penetrava a rischiarare quell’atmosfera beckettiana.
Dopo un respiro più forte si alzò. Il tempo del pensiero era finito e si mutava in quello dell’azione.
Si disinteressò delle scarpe, che peraltro stavano dall’altro lato del letto, e con severo sprezzo dell’incolumità dei propri piedi camminò sulle nude mattonelle fino alla finestra. La spalancò sul giorno nascente. La posizione era sopraelevata e la vista inaspettatamente dolce, in contrasto col luogo dal quale si affacciava: un vasto cortile pubblico, seguito da un fiume, seguito da una periferia qualunque di edifici rozzi e poveri ma a loro modo dignitosi.
Dopo aver guardato il panorama per qualche minuto, senza peraltro vederlo, abbassò gli occhi sul piazzale sterrato che si stendeva diversi metri più sotto. Il tempo del pensiero era finito, lo sapeva già. Abbassò le mani sul davanzale e scavalcò.
Pochi secondi, e fu dall’altra parte.

Mobilitat mortis [ii]
Le scarpe erano rimaste in albergo, e ok. Così la strada la doveva fare tutta a diretto contatto col suolo, perchè si trattava di camminare -e anche tanto-, piante a terra e niente lamenti. Scoprì che la cosa era sorprendentemente facile. Le pietre squadrate su cui procedeva sin dall’inizio non erano il massimo della comodità, per i piedi, ma ancora non sentiva dolori o fastidi. Forse che essere morti facilitava le cose? Poteva solo supporlo.
Era sceso per una scala a chiocciola dai larghi gradini in pietra e dall’ampissimo raggio, nell’oscurità quasi completa, senza sapere come si fosse ritrovato lì. La scala saliva e scendeva nel buio. Prese per il basso e scese parecchio prima di toccare infine il suolo. Fu sorpreso di vedere che la scala aveva termine ma, si dise poi, doveva pur essere così.
Ancora nero tutto intorno e pietroni come terreno. Intuiva attorno a sè la vastità dello spazio, sebbene invisibile, ma con la strana sensazione di non trovarsi all’aperto. Un luogo chiuso con le pareti a giorni di distanza fra loro. Possibile?
E perchè mai avrebbe dovuto essere impossibile?
La marcia riprese, anche se non sapeva proprio da che parte dovesse andare. Semplicemente si allontanò dalla scala prendendo una direzione qualsiasi, per quello che gli parve qualche giorno di ininterrotto cammino su quella superficie piatta e tutta uguale, nell’oscurità quasi totale. Fu senza preavviso che ad un tratto la terra gli mancò sotto i piedi: al buio non aveva potuto vedere che il terreno finiva, e cadde in quella che aveva tutta l’apparenza di essere acqua, con un capitombolo da commedia del muto.
Si riarrampicò imprecando sull’asciutto – c’era un dislivello di trenta centimetri – e si distese. Non poteva vedere quasi nulla, ma lo specchio d’acqua non era un ostacolo da affrontare alla leggera, lo sapeva. Come sapeva che per ora non poteva più fare nulla.
Era di nuovo impotente, intrappolato nei meandri dell’attesa. Restò sdraiato e zuppo, senza muoversi. Se non altro, non sentiva freddo.
L’attesa si protrasse per parecchio, ma lui aveva già da un bel po’ rinunciato a farsi un’idea di come scorresse il tempo da quelle parti: senza riferimenti esterni doveva basarsi sulle sue sensazioni, che di certo erano completamente inattendibili. Era ancora sdraiato ma si era ormai asciugato, e cercava di cogliere qualche indizio di vita nel vuoto che lo circondava. Ne sarebbe ben dovuto arrivare uno, prima o poi. E infatti arrivò. Si rialzò a mezzo e fissò il nero davanti a sè.
Era un rumore vago e acquoso: qualcosa che si muoveva nel bacino di fronte a lui. Aspettò, e sentì il suono crescere. Ancora un po’, e un bagliore spezzò debolmente l’oscurità. E quando rumore e luce furono vicini potè finalmente vedere una zattera, una lanterna, un remo e, soprattutto, il proprietario di queste tre cose. Vecchio, pareva vecchio: e aveva ben ragione di esserlo. Era grigio, smunto, pallido, estremamente trascurato nell’aspetto. Ma gli occhi erano curiosi e vitali, e le mani manovravano il remo e la barca senza sforzo.
Il vecchio lo guardava con una certa tranquillità. Lui era ancora semisdraiato, e stentava a decidersi ad alzarsi. In quel teatro crudelmente insensato le due surreali creature restarono a fissarsi per un po’.

Αχέρων [iii]
La zattera procedeva senza fretta particolare, al ritmo delle tranquille remate del traghettatore. Lui si era seduto alle sue spalle, senza una parola, quando -ancora sulla riva- il vecchio aveva girato la misera imbarcazione. Nell’anziano non pareva  ci fosse la minima curiosità verso il suo passeggero, che dal canto suo aspettò il momento in cui il rematore avrebbe detto qualcosa. Il momento non venne e anzi sembrava non dover mai venire. Per cui.
- Quanto è largo questo lago?
La risposta venne da una voce sorprendente. Sorprendentemente normale: – E’ un fiume.
- Un fiume? – Era davvero sorpreso – E’ vastissimo.
- E’ quanto basta.
Non era granchè come interlocutore, certamente. Lui aspettò invano che la discussione continuasse, ma l’accompagnatore rimaneva taciturno e si sentì costretto a riprendere l’iniziativa. Quel silenzio lo sfiancava, e ne aveva avuto anche troppo ultimamente.
- Mi sarei aspettato di vedere più movimento.
- E perchè mai?
- Beh, muore tanta gente…
- E tanta gente vive. Ma lo stesso il vostro mondo è in gran parte deserto.
La logica gli pareva fallace, ma non fece in tempo a protestare, perchè stavolta fu il vecchio a riprendere.
- Come ti chiami?
Fu preso alla sprovvista. Gli disse il proprio nome.
- E perchè sei qui?
Non sapeva se rispondergli. Non trovava una sincera curiosità nel tono di voce, che restava completamente neutro. Per di più parlava alle spalle del traghettatore e non poteva scrutarne il viso per farsi un’idea dei suoi pensieri. Qualora ve ne fossero, ovviamente. Giocò la carta della verità.
- Io… Conoscete la storia di Orfeo ed Euridice?
Ci fu silenzio per alcuni secondi.
- No.
- E’ una vecchia leggenda di amore e morte.
- La posso immaginare. Oppure non posso. O magari non voglio. Lascia stare. Tutte le storie sono uguali.
Rimase piccato, nonostante un certo sollievo. – Siete diverso da come mi aspettavo, sapete?
- Sapevi di me?
- Siete molto noto. Un vecchio italiano vi incontrò e scrisse di voi.
- So di chi parlate. Che disse di me?
Quando sentì la risposta l’anziano abbandonò per la prima volta il proprio distacco e scoppiò in una rauca risata. Si fermò per mormorare: – Caron dimonio dagli occhi di bragia… lo sapevo che ne aveva di fantasia. – e riprese a ridere.
Il suo ospite ne fu sollevato. Aveva temuto di offenderlo. La risata dello psicopompo lo aveva rincuorato, e pose una domanda che lo tormentava dall’inizio del viaggio.
- Mi hanno detto che si può tornare.
- Ti hanno detto il vero. Tornare è possibile. Non impossibile. E non certo.
L’eco dell’ultima vocale non si era ancora spento che la zattera toccò qualcosa. Era l’altra riva. Il traghettatore si voltò verso il suo passeggero. Lo sguardo lo invitava a scendere.
Passò sul terreno. Era a disagio, cercava il modo più semplice per accomiatarsi: – Devo lasciare un obolo? Temo…
Il rematore lo fissò. Occhi mortalmente seri. – Molti sono scesi quaggiù, in tempi lontani, pensando di poter pagare i miei favori con i loro strani simulacri metallici. Quegli oggetti tappezzano il fondo del fiume su cui siamo, se quel fondo esiste, cosa che personalmente ignoro. Io non sapevo che farmene. Ora ascolta. Forse ti ho mentito o forse no. Forse ho sempre saputo chi sei. Forse conosco meglio di te le strane storie che citi, e forse non ho mai incontrato poeti, o anche proprio nessuno prima di te. Forse non ho incontrato nemmeno te.- S’interruppe. Lui si sentiva gelare. Lo psicopompo riprese: – Continua a camminare, allontanati dalla riva. Forse troverai quel che cerchi.
- Non mi augurate buona fortuna?
- Perchè mai?
La zattera si allontano dalla riva. Un minuto dopo non esisteva già più.

Una sconfitta [iv]
Ora non sapeva dove si trovasse. Nè come ci fosse arrivato. L’ultimo ricordo era il salto dalla finestra, e anche se ricordava che qualcosa fosse successo dopo allora, non gli veniva in mente niente di quel “qualcosa”. Nel momento in cui era entrato nella stanza in cui era seduto aveva dimenticato tutto.
Non poteva fare a meno di pensare che questa amnesia dovesse avere un qualche significato.
La stanza era piccola e spoglia, e molto male illuminata. Per quanto surreale apparisse la cosa, aveva l’aria di un classico soggiorno di una comune casa d’abitazione, anche se un po’ povera. Si rendeva ora conto che non rammentava per niente l’aspetto esterno della casa.
Era seduto a un tavolino, accanto ad un uomo dall’aria cordiale che gli stava versando del tè. Non ricordava chi fosse costui. Era tutto stranissimo, e un’ansia feroce prese a divorarlo internamente.
Il suo ospite ora sedeva di fronte a lui e lo guardava pensosamente; sembrava in attesa. Pensò che fosse il caso di fare la prima mossa.
“Io sono…”
Un gesto dell’altro lo zittì. Poi l’ospite parlò a sua volta; l’espressione e il tono di voce rivelavano un profondo dispiacere.
“Lo so chi sei, come so perchè sei qui. So che hai voluto dare ascolto ad una antica leggenda per venire fin qui e riuscire a riappropriarti di quel che ritieni tuo. Ma da questo viaggio tornerai a mani vuote. Poeti e cantori di ogni epoca e luogo hanno raccontato di amori sopravvissuti alla morte e di eroi che hanno affrontato ogni pericolo per poter inseguire un sogno; ma quelle sono leggende e questa è la realtà, e la realtà è che non c’è speranza. La realtà è che lei ti ha dimenticato.”
L’ultima frase suonava come una sentenza. Lo colpì come una sassata.
“Così è” proseguì l’ospite “lei non ti appartiene più. Questa è la morte, ed è un luogo di vuoto e desolazione, e chi lo abita -come lo abita lei- non ha che di queste due cose, e nient’altro. Ti sei spinto fin qui assai coraggiosamente, e ti sei ben comportato, ma più avanti non andrai, perchè non sarebbe bene e non servirebbe a niente. Ora ti devo pregare di lasciare questo luogo.”
Sentiva la gola arida. (Davanti a lui la tazza di tè era ancora intatta, ma se l’era completamente dimenticata). Ugualmente parlò.
“Chi mi ha preceduto ha avuto almeno una piccola possibilità. E a me viene negato tutto.”
L’ospite aveva ancora la sua voce desolata. “Tale è la verità: che nessuno ti ha mai preceduto. Hai inseguito fantasmi che non ti hanno portato a nulla se non a un cammino intricato ed inutile. Ora tutto è finito.”
Lui, sopraffatto dal dolore, chiuse gli occhi, e l’oblio scivolò nella sua mente.
Riaprì gli occhi su pareti bianche (da quanto non vedeva qualcosa di quel colore?). Cicalini di macchinari rumoreggiavano accanto a lui, e si rese conto di essere sdraiato in un letto, immobile e con tubi vari che uscivano ed entravano dal suo corpo.
Un ospedale. Era quindi vivo? Sentiva dolori ovunque, e ritenne che fosse una prova sufficiente.
Non capiva cosa fosse successo finchè gli occhi non gli caddero sulle sue scarpe, assurdamente appoggiate sul comodino accanto al letto. Ricordò allora lo squallido albergo, la finestra, il volo.
Cominciò a piangere.

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