domenica 30 dicembre 2012

Sügisball (Veiko Õunpuu, 2007)

Sügisball (Ballo d'autunno) è un film estone del 2007, girato da Veiko Õunpuu, apparentemente uno dei più interessanti registi estoni contemporanei. Ha partecipato al Festival di Venezia dove ha vinto il premio Orizzonti.




Film lunghetto -sfiora le due ore- e piuttosto lento, ispirato ad un libro di Mati Unt (purtroppo inedito in Italia, pare) incentrato sul tema (originalissssssssssimo) della solitudine e dell'incapacità di comunicare dell'uomo moderno; cinque storie di ordinaria frustrazione che a tratti si incrociano brevemente. Mati (Rain Tolk, il sosia baltico di Massimo Coppola) è uno scrittore lasciato dalla sua ragazza che non riesce ad accettare la cosa; Theo (Taavi Eelmaa) è un portiere d'albergo sessuomane insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro; Kaski (Sulevi Peltola) è un barbiere finlandese che non si sente accettato dall'Estonia; Laura (Maarja Jakobson) fa l'operaia, è madre di una bambina ed è separata da un marito ubriacone che la perseguita; l'architetto Maurer (Juhan Ulfsak) e sua moglie Ulvi (Tiina Tauraite) attraversano una crisi esistenziale e matrimoniale. Sullo sfondo, una Tallinn livida e lugubre, una periferia di fabbricati ereditati dall'URSS1. Personaggi tristi e silenziosi che fanno cose strane: Mati pedina la sua ex (la bella Mirtel Pohla) e si ubriaca, Maurer insulta senza motivo sua moglie, Theo scopa con tutte e forse non sa perché, Laura si droga di telenovelas, sua figlia neanche decenne sta sul balcone a prendersi gelida pioggia, Kaski si comporta da perfetto pedofilo senza neanche accorgersene. Sügisball non vuole essere tragico o depressivo, quanto piuttosto opprimente e disilluso; sprazzi di ironia alleggeriscono qua e là la tensione (a volte un po' gratuitamente, come nel caso di Mati alle prese con un numero da avanspettacolo mentre acquista una rivista porno). Saranno le ultime parole di Mati a chiarire -se mai ce ne fosse il bisogno- ciò che la pellicola vuole essere: un ulteriore, ennesimo tassello nel mosaico sterminato delle opere che provano ad indagare sul senso della vita.

Come il vaso di Pandora, dopo tanto soffrire il film si chiude con piccole note di speranza. Riservata, però, non a tutti.

In sintesi un film più che discreto. Bella la fotografia, incentrata sulla grigia periferia di una metropoli del lontano nord (molti accenni ad una architettura quasi à la 19842), interessante la colonna sonora con anche un paio di bei recuperi dalla discografia estone e soprattutto la presenza in tre occasioni di frammenti della superba Moya dei Godspeed you! Black Emperor3 (e questo sarebbe già un buon motivo per incensare questo film).

Al di fuori dell'Estonia Sügisball ha avuto purtroppo scarsissima diffusone e non esiste un adattamento in italiano (o almeno io non l'ho trovato).


questo film è dedicato a tutti gli uomini con l'animo gentile e il fegato debole
che stanno soli nella notte,
in mutande.


[1] forse vale la pena di ricordare che i popoli baltici sono quelli che più malvolentieri hanno sofferto la dominazione sovietica.
[2] ma tutto il mondo è paese: impossibile non notare somiglianze dei palazzi con la Buenos Aires di Garage Olimpo, ad esempio, e in certe scene solo la presenza del colore attenua la somiglianza con la Palermo di Cinico TV.
[3] anche se nei titoli di coda viene erroneamente indicata come Static (che è invece tutt'altro pezzo, sebbene sempre dei GY!BE).

sabato 8 dicembre 2012

Sul ruolo dell'antagonista nella letteratura classica

Esami di stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di II grado
TIPOLOGIA B - REDAZIONE DI UN SAGGIO BREVE O DI UN ARTICOLO DI GIORNALE - 1. AMBITO ARTISTICO - LETTERARIO
ARGOMENTO: Le figure di Renzo e Lucia quali personaggi centrali del romanzo I promessi sposi.



Esimi professori giudicanti, vorrei -qualora me lo consentiste- deviare un po' dal canonico corso precalcolato delle solite monotone tracce dei temi della Maturità (pardon, dell'Esame di Stato). Questo non già per mancare di rispetto a voi, alla commissione che ha selezionato le tracce o al romanzo e al suo defunto autore. Non si tratta di questo, no, quanto del fatto che la traccia è erronea. Mi si chiede di analizzare i personaggi di Renzo e Lucia quali figure centrali del testo: non è così. L'intero libro I promessi sposi è in realtà un'allegoria sulla sfiga che prende le mosse dalla natura sadica del suo autore, e unico e reale fulcro del romanzo è la figura di Don Rodrigo, anticipatrice di tutti i bersagli della malasorte nei secoli a venire, da Paolino Paperino al Nordberg di Police Squad.

La questione nasce così. Lucia Mondella -il personaggio di gran lunga più insopportabile del romanzo... ma non divaghiamo- viene abbordata dal signorotto locale Don Rodrigo, che si è invaghito di lei.
Quanto può resistere una fanciulla fragile e timorata di Dio di fronte alle profferte, nemmeno troppo pressanti, di un potente abituato ad avere tutto quello che vuole? Rodrigo avvicina la sventurata già traquillo della sicura conquista, e invece no! La Mondella glissa e si eclissa, e lo spettatore Attilio irride il cugino che in cuor suo sicuramente mastica un po' amaro e pronuncia il fatidico "Scommettiamo?". E' sicuro, l'ispanico, di far sua Lucia in breve tempo. E invece questa persiste a difendersi, e a negarsi con una fermezza insospettabile.
Rodrigo di incaponisce, vuole assolutamente quel bel giocattolo e ormai la posta in gioco si è alzata: ne va del rispetto che parenti e amici povano verso di lui. Manda così i bravi a bloccare il matrimonio; è un segnale indiretto a Lucia per farle capire che è meglio non tirare troppo la corda. La Mondella abbocca? Neanche per idea, dice tutto alla mamma (e non metaforicamente), a LorenzoocomedicevantuttiRenzo e infine a Fra' Cristoforo da ***. Il religioso dal sanguinoso passato va allora a minacciare Rodrigo:  è un segnale indiretto a Rodrigo (da Lucia) per fargli capire che è meglio non tirare troppo la corda. La storia si ciclizza, come si vede.
La lusinga non ha funzionato, l'insistenza non ha funzionato, la minaccia non ha funzionato, l'iberico comincia ad averne abbastanza della prospettiva di farsi le seghe ad libitum (la commissione d'esame mi scusi il linguaggio, ma va a favore del realismo) e manda a rapire la contadina.

All'inizio del diciassettesimo secolo si immagina che le giovani di basso ceto sociale la sera stiano a casa loro, che non c'è proprio un cazzo di motivo per andar fuori a divertirsi. Al massimo rientreranno per le nove di sera (al cambio attuale, dico). Rodrigo sguinzaglia i cani, pardon, i bravi al recupero della bamboccia. Questi arrivano alla casa di lei e non trovano nessuno (perchè i piccioncini stanno facendo la loro gabola da Don Abbondio)! Quante sere avrà passato fuori casa Lucia Mondella in vita sua? Quattro? Cinque? Beh, Don Rodrigo ha azzeccato una di quelle (lo so, lui stesso ha facilitato la cosa, ma resta una cosa notevole). Non solo, i promessi sposi sgamano la furbata e levano le tende.
Il signorotto arriva probabilmente al calor bianco: il risultato è 4 a 0 per Lucia. Apprende però che la contadina si è rifugiata in un convento a Monza e non intende cedere, anche se arrivare fin là è una faccenda complicata: fuori dalla sua giurisdizione e in un luogo poco penetrabile, come organizzerà il nuovo ratto?

Qui Manzoni si supera. Di organizzare il nuovo recupero viene incaricato l'Innominato, bella figura di tiranno così malvagio che al suo confronto Stalin sembra Madre Teresa di Calcutta (mi perdonino i signori esaminatori della commissione queste banali similitudini, ma è fatto solo per rafforzare le caratteristiche del personaggio). Tutto ci si può aspettare da questo tizio, tranne ciò che effettivamente accade: con tempismo assolutamente perfetto l'Innominato rinnega il male e si converte alla bontà in modo così repentino e completo da far sorgere dubbi riguardo un abuso di stupefacenti. Apro un inciso: critici e commentatori manzoniani hanno prodotto un mucchio di letteratura sulla funzione di Lucia sul ravvedimento dell'Innominato; ora, avendo letto il libro, in questa sede d'esame vorrei dissentire, esimi professori, su questo punto, e dichiaro solennemente che il ruolo della rompibal della Mondella nell'evento è meno che marginale.

Ma torniamo a Don Rodrigo, su cui la sorte si è abbattuta in modo così pesante da far pensare alla trama di un film demenziale. Siamo verso la fine del libro, e nessuno degli stratagemmi escogitati dal signorotto, sulla carta infallibili, ha funzionato. Attilio è morto, il territorio è in subbuglio per via della peste e forse ci sono cose più importanti a cui pensare che non a Lucia. Ma mancava giusto l'epilogo: basta una -tutto sommato breve- gita a Milano perchè Don Rodrigo si becchi la peste. E deve pure agonizzare per giorni, a differenza del Griso che muore nel giro di qualche ora. Fine ingloriosa ma tutto sommato prevedibile per uno squallido feudatario che fini per sua disgrazia nelle mani dell'autore sbagliato.

Con la morte del soggetto termina la mia disamina del personaggio, con cui spero di aver chiarito la mia tesi oltre ogni dubbio, e termina anche questo tema. Il quale, esimi professori, se non v'è dispiaciuto affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritto. Ma se in vece fossi riuscito ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.

sabato 1 dicembre 2012

Della distanza delle fiction italofone da quelle anglofone

(Premesse minime:  1) testo mio, ma riportato qui da altro loco; 2) non sono per nulla sostenitore, come potrebbe sembrare, di ideologie aprioristicamente anti- o pro- Italia)


Questa ve la devo raccontare. Ennesimo capitolo che conferma l'abissale distanza tra le fiction italiche e quelle anglofone.
Giovedì sera è terminata Un passo dal cielo 2, serie particolarmente triste prodotta dalla Rai incentrata soprattutto su Terence Hill che fa la guardia forestale in Alto Adige.

Antefatto.
Non ho praticamente seguito la storia, ma bene o male le cose dovrebbero essere andate così: all'inizio della serie due coprotagonisti, un commissario di polizia e una veterinaria (la sempre notevole Gaia bermani Amaral, ndA), dovrebbero sposarsi, ma le cose vanno a rotoli perchè lei viene ricontattata da un suo ex, che fa il ricercatore/esploratore/avventuriero, per andare con lui in Alaska a studiare gli orsi. Lei accetta, litiga col commissario ed esce di scena. Torna nella penultima puntata (o giù di lì) perchè pare siano finiti i soldi per la missione, e si riavvicina al poliziotto; scopre però di essere incinta dell'ex. Col quale a questo punto deve chiarirsi. L'ex nel frattempo ha ottenuto nuovi fondi per tornare in Alaska e vorrebbe andarci ancora con lei, che però stavolta ovviamente non può e non vuole.

Fatto.
Giuro che il dialogo (che sarà durato tipo tre minuti) è riportato in modo praticamente testuale.
Veterinaria ed ex sul divano, lei le conferma che è incinta di lui. I toni sono rilassatissimi
Lui: "Sai come sono fatto. Mi ci vedi a girare il mondo con un bambino dietro?"
Lei: "(ridacchiando) No, in effetti no. (più seriamente) Io il bambino comunque lo voglio tenere. Ma tu vai pure in Alaska, fai le tue cose, ci penso io a crescerlo"
Lui: "Va bene. Vado ad avvertire i finanziatori che stavolta parto da solo". E se ne va.


Sono quasi caduto dalla sedia. Credo che neanche Ionesco avrebbe saputo tirare fuori una roba così surreale; il bimbo diventa allegramente una palla al piede per lui e lei non fa una grinza ed è tutta contenta di allontanare il padre di suo figlio. Ok, l'ex deve uscire di scena per chiare esigenze di copione, ma si poteva farlo morire in un dirupo, o scappare nottetempo senza dir niente a nessuno (magari lasciando a lei un biglietto tipo "non mi sento pronto a fare il padre"). Invece è diventato il quadretto più patetico che si sia mai visto.

Sceneggiatura nostrana, serious business


(Strano anche che la Rai filopontificia abbia prodotto ed approvato una tale ridicolizzazione della sacralitàdellafamiglia. Ok che Un passo dal cielo formalmente non è una serie bigotta, ma dato che il protagonista è Terence Hill -che dopo un decennio di Don Matteo ha fidelizzato un pubblico tutt'altro che secolarizzato- il target mi pare quantomeno rischioso...)

domenica 11 novembre 2012

Alcune notizie imprecise e noiose sugli esseri viventi

[quanti errori conterrà questo post?]

Quand'ero un piccolo fessacchiotto imberbe e andavo a farmi fottere il cervelletto alle elementari e alle medie, imparavo che al mondo esistevano i famigerati tre regni della natura: animale, vegetale e minerale. La cosa sembrava fondamentalmente semplice: se si muove è animale, se non si muove ed è verde (e magari col tempo cresce anche) è vegetale, se non si muove e non è verde è minerale. I sassi da allora son rimasti sempre sassi e nessuno se ne preoccupa più; animali e piante invece già all'epoca -a mia insaputa- facevano da tempo litigare i naturalisti.
Giunto alle superiori, complice anche l'indirizzo scientifico che avevo voluto erroneamente dare ai miei studi, mi spiegarono che le cose si erano un po' rimescolate. Con mia somma sorpresa i funghi non erano più vegetali (ed in effetti molto spesso non erano verdi) (ok dai, anche le maestre non me l'avevano semplificata così tanto, sto solo facendo della satira inutile) ma erano in regno a sè; le amebe non erano più animali ma protisti (proticosa?); i batteri erano addirittura monere, termine che mi ha sempre divertito inspiegabilmente. I virus non erano nemmeno più esseri viventi, come se non fossero già abbastanza inquietanti per conto loro.

L'informazione scientifica è capace di viaggiare molto lentamente, a volte in modo giustificabile. A chi interessa sapere davvero se certi esserini nel plancton sono da considerare protisti piuttosto che animali? Normale quindi scoprire a posteriori che, già quando negli anni '80 io e miei coetanei studiavamo la consolidata classificazione tripartita, per gli addetti ai lavori parlare di monere e funghi era già consuetudine; nemmeno le nostre maestre sapevano nulla di questa evoluzione negli studi evolutivi (metaevoluzionismo!). Ancora oggi, suppongo, alle elementari si insegna che i funghi sono piante (quando sono in realtà più simili agli animali).

(Avete già mal di testa? Benone!)

Dall'elettrizzante scoperta dell'esistenza dei protisti e delle monere sono passati per me circa 15 anni. I biologi non se ne saranno stati decisamente con le mani in mano, mi dicevo, soprattutto dopo che giorno dopo giorno il DNA diventa sempre più facile da sminuzzare e analizzare in modo da poter scovare le parentele più nascoste. Cosa potrà mai farmi scoprire Google in questo negletto campo di studi? Mentre passavo dalle elementari alle medie gli studiosi mi avevano imparentato più strettamente all'amanita falloide rispetto al trypanosoma cruzi. Dove avrebbero potuto portarmi nel 2012?

La pagina Wiki italiana sui regni attuali sembra più interessata a fare della science fiction, così mi sono rivolto a quella inglese e ad altre fonti.
Così ho scoperto che:
- le monere non esistono più e ci sono batteri che non sono batteri: si chiamano archea; quando studiavo io alle superiori (seconda metà dei '90, bei tempi) si chiamavano archebatteri ed erano considerati un "tipo" di batteri. Gli studi invece hanno dimostrato che batteri e archebatteri sono sì simili fuori, ma dentro mica tanto, anzi, i secondi sono per certi versi vicini ad animali e piante (!)
- quindi ora le vecchie monere si distinguono in batteri e archebatteri, o meglio archea.
- questi esseri sono detti procarioti -forme di vita unicellulari con cellule molto semplici-, mentre tutto il resto rientra negli eucarioti -forme unicellulari o pluricellulari con cellule più complesse. Ok, questo lo sapevo.
- negli eucarioti nessuno ci capisce più nulla.
- i protisti non piacciono (giustamente) a nessuno, perchè è più o meno una discarica in cui infilare tutto quello che non sta negli altri regni, senza badare alla parentela tra i membri.
- sono apparsi i cromisti, più tardi divenuti cromalveolati.
- non ho però idea di cosa siano i cromisti. Paiono una via di mezzo tra protisti e piante.
- nuove proposte di suddivisioni negli eucarioti appaiono quasi quotidianamente, a quanto pare. Una delle più interessanti suddivide gli eucarioti tra unikonta (esseri con un progenitore con un flagello) e bikonta (progenitore con due flagelli), e fa apparire gli opisthokonta tra gli unikonta. Animali e funghi sono opisthokonta. Piante e cromisti sono bikonta. Qui mi sono arreso.

Poi ho scoperto che c'è un microorganismo eucariota che si chiama Collodictyon e che non somiglia a nessun altro essere vivente noto. Non è ne unikonta nè bikonta. Non è animale, pianta, protozoo, fungo, alga, ameba, opisthokonta, cromista, alveolata, apusozoa, excavata, mesomicetozoo. Non è archea, battere, nemmeno virus. Però è sicuramente vivo (e più di un virus, peraltro), semovente e figliante.
Ci sono questi cosi che se ne vanno in giro tranquilli e non sappiamo cosa siano.
Adesso non riesco più a dormire.

domenica 7 ottobre 2012

Club d'Opo

Scarto una Kinder Brioss
Me la sbafo e dopo gioco a SWOS
Amiga o DOS
Non ho l'X-box
Sono retro e quindi gioco a SWOS

martedì 4 settembre 2012

Di un breve e inutile sfogo sull'inchiostro che macchiava le dita

In questi giorni sono stato in fumetteria e ho comprato gli ultimi due agognati volumetti della ristampa di Blame! (ladrata della Panini, ma l'acquisto mi toccava per forza) e il settimo di Knights of Sidonia.
Ho preso tutte e quattro le opere di Nihei uscite negli anni in Italia (Blame! -compreso il Noise accoppiato alla prima edizione-, Abara, Biomega e KoS), perchè rimasi folgorato, senza mezzi termini, dai disegni di Noise pubblicato su alcuni veeeeeeeecchi numeri di Kappa Magazine. Dal punto di vista estetico non ho più trovato un fumetto in grado di avvicinarvisi; diverso il caso delle storie (Blame! era davvero agghiacciante, grazie anche alla pessima traduzione), ma il tratto feroce e le architetture apocalittiche a me bastavano.

Solo che ad ogni nuovo lavoro qualcosa di quella grafica si perde. Moltiplicando la tecnica del disegno per la qualità delle storie con Nihei si ottiene evidentemente una costante, perchè ora il buon Tsutomu sta lavorando ai cavalieri della Sidonia, e ad una trama finalmente gradevole (magari meno originale, ma finalmente comprensibile) si accompagna un tratto talmente pulito da diventare quasi anonimo. Qualcosa della mano di Blame! si nota ancora, ma è un dispiacere vedere un tale talento appiattirsi così.

Dovremo vedere l'ex-architetto stilizzarsi sempre più? Possibile che non si possa avere un erede di Noise, ma con una storia finalmente leggibile? Cosa mi combina, Tsutomu-san? :(

domenica 2 settembre 2012

What happened to you, Michael Collins?

Il contatto radio è cessato e adesso sono davvero solo. Il modulo di comando è angusto e scomodo, ma oramai è come casa mia. E ora sono a casa da solo.
Il LEM è sceso e ora quei due se ne vanno a spasso sulla Luna, e io non potrò mai farlo. Pazienza. Ma non ho molti rimpianti; forse in pochi si ricorderanno di me, ma ho fatto il mio dovere e ne sono onorato. La faccia oscura della luna mi guarda da sotto il modulo. Il mio modulo. La mia luna. Siamo in pochi ad aver visto di persona questo segreto del cosmo. Ricordo di qualche burlone che diceva che i nazisti ci hanno costruito una base. Sorrido tra me all’idea di orde di Schutzstaffel nascoste fra quei crateri. Non sembrano granchè ospitali.
Quarantotto minuti sono lunghi qui. Abbastanza per essere assaliti dall’ansia. Chissà come stanno Neil ed Edwin, chissà cosa stanno pensando a terra. Devo ammettere di avere paura. Tra poco i contatti radio saranno ripristinati, risentirò i ragazzi del controllo a terra e tirerò un sospiro di sollievo.
Eppure credo che mi mancheranno, questi momenti di estremo silenzio che non rivivrò mai più. Questi attimi nei quali mai, dai tempi di Adamo, un uomo ha vissuto una così intensa solitudine.


lunedì 27 agosto 2012

Iersera, traguardi

Mi sono preparato la cena [quasi] da solo.

Si festeggi.

mercoledì 22 agosto 2012

Numero atomico 20

Suppongo e auspico che in futuro verranno tempi felici in cui una civiltà progredita condurrà studi archeologici e antropologici sui fossili delle nostre generazioni ed arriverà a stabilire con buona approssimazione quali sono le cause che hanno portato a inesprimibili livelli di delirio la pratica e l'osservazione di uno sport che in condizioni normali sarebbe stato tutto sommato incruento e gradevole.

domenica 19 agosto 2012

L'angolo del retrogaming bislacco e malsano: Geograph Seal

Un imprecisato giorno del 1997 andai a Desenzano del Garda a comprarmi una Playstation, obiettivo a cui miravo da tempo. Originariamente la mia intenzione era quella di abbinare l'acquisto a Tohshinden 2 (o come cappero si scrive); col passare del tempo l'idea divenne invece quella di prendere Tekken 2. Quel giorno del 1997 il negozio non aveva nè l'uno nè l'altro, e davanti alla prospettiva di dovermene restare a fissare il bios della console (che non potevo nemmeno usare per ascoltare i CD musicali, perchè non ne avevo nemmeno uno) finii col comprare, non ricordo come e perchè, Jumping Flash 2. Che non avevo mai sentito nominare. E che mi piacque assai.
JF2 è il seguito di un gioco di cui al momento non mi sovviene il nome. Entrambi sono stati prodotti da una softhouse giapponese poco nota in occidente chiamata Exact, che un giorno sarebbe stata assorbita dalla Sony; nei suoi anni da indipendente però ebbe modo di secernere qualche simpatico giocattolo per Sharp X68000 (mai usciti dal Giappone nè il computer nè tantomeno i giochi). Tra questi troviamo Geograph Seal, uscito nel 1994, da cui i JF si discosteranno ben poco.

Geograph Seal dunque. Allora, sostanzialmente GS prende le mosse da un oscuro prodotto a nome Gamma Planet, uscito sempre per X68k nel 1989 dalla altrettanto oscura software house Compac (almeno così parrebbe). Gamma Planet era una sorta di FPS ante-litteram con molti prestiti dal presitorico Battlezone della Atari (in primis la grafica vettoriale). Cinque anni dopo Exact riprende da GP quasi tutto, sostituisce vettori con poligoni, aumenta la velocità e tira fuori Geograph Seal.
In sostanza GS ci vede alla guida di un mech che deve aggirarsi per livelli irti di ostacoli e nemici allo scopo di distruggere una serie di target, abbattuti i quali si passera al boss, abbattuto il quale si passerà al livello successivo. La prospettiva è in prima persona e la grafica totalmente poligonale, senza uno straccio di texture (io amo questa cosa) e con qualche oggetto addirittura in wireframe, cosa che alla fine può rievocare il leggendario Starwing (o Star Fox, che dir si voglia) per SNES, uscito peraltro l'anno prima.
I livelli nei quali il nostro mech si aggira hanno una semplice pianta rettangolare delimitata da mura invisibili e non sono particolarmente grandi, ma i nemici sono numerosi, si rigenerano continuamente e possono arrivare da ogni direzione. Possono essere abbattuti usando una serie di armi, disponibili subito o droppate dai nemici eliminati; le armi hanno fondamentalmente proiettili infiniti, ma un aspetto piuttosto originale è che il loro utilizzo è subordinato ad una barra di energia che si svuota tanto più rapidamente quanto più rapidamente spariamo, e che si ricarica (non troppo velocemente) quando non stiamo sparando: ergo, tenere premuto perennemente il tasto di fuoco è una PESSIMA idea, i nostri cannoni devono "respirare". Quest'idea, in qualche modo già vista in R-type, viene direttamente da Gamma Planet e non sarà mantenuta nei Jumping Flash. Sarà un'altra peculiare caratteristica invece a proseguire in JS, quella del salto multiplo: ovvero, se il mach si trova in aria in seguito ad un salto può saltare di nuovo (per un massimo di due volte) per arrivare più in alto; dopo il secondo la visuale si abbassa automaticamente in modo da farci vedere il terreno e capire dove precipiteremo. Se finiremo su un nemico tanto meglio, si possono ammazzare anche a pestoni! Per difendersi dai colpi avversari possiamo nasconderci dietro i numerosi pilastri e colonne sparsi per il terreno; ogni colpo subito abbassa la resistenza del mech, indicata dalla barra "shield", e quando questa arriva a zero parte una vita. Dopo tre vite è game over.
Un secondo tipo di livelli (meno numerosi) ricalca molto da vicino il già citato Starwing. La visuale è sempre in prima persona ma non controlliamo il mezzo, che in questi stage vola per i fatti propri, bensì solo il mirino per abbattere i nemici che ci si parano davanti.
La meccanica di gioco di GS è parecchio confusionaria. Il ritmo è piuttosto elevato e la grafica di non facile lettura, anche perchè manca del tutto una mappa degna di questo nome e l'hud di gioco ha un radar limitatissimo. Purtroppo GS supporta solo joypad a due tasti, ergo: con uno si spara, con l'altro si salta, premendoli entrambi si attiva il menu o si alza/abbassa lo sguardo; in questi ultimi due casi, per decidere se aprire il menu o cambiare la visuale, il gioco valuta se, al momento della pressione dei tasti, era contemporaneamente premuto un tasto direzionale (quindi viene cambiata la visuale) o no (e allora si apre il menu). In fasi di gioco abbastanza concitate rendersi conto di queste combinazioni è tutto fuorchè pratico, anche perchè i tasti direzionali, servendo soprattutto a muovere il mech (ovviamente), sono premuti praticamente sempre, e la cosa finisce puntualmente per interferire con la doppia pressione dei tasti. Ahimè, è una falla di giocabilità piuttosto grave che mina un gioco interessantissimo. La cosa verrà risolta in JS sia perchè la Play di tasti ne ha una decina, sia perchè il gioco stesso ha ritmi assai più blandi.
Più o meno è tutto qua. Jumping Flash in occidente non ha ricevuto il successo che meritava, così dubito che Geograph Seal avrebbe potuto giocarsi le sue chance; ma si tratta comunque di un titolo pieno di buone idee e molto valido soprattutto tecnicamente (anche le musiche sono azzeccate). Scelte meno miopi sui controlli avrebbero potuto rendero infinitamente più giocabile e, in ultima analisi, divertente. Merita comunque un giro, così come i Jumping Flash e, se proprio siete curiosi, Gamma Planet.

venerdì 17 agosto 2012

между тем

Visualizzazioni nell'ultimo mese


Qualcuno ha per caso una vaga idea del perchè questo blog affascini i russi?

mercoledì 15 agosto 2012

Videogiocattoleria

Voglio un Raspberry Pi :(

lunedì 13 agosto 2012

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Micro-restyling grafico del bleurg: al posto della triste intestazione testuale campeggia ora una triste intestazione grafica che ha anche il pregio di essere piuttosto insensata.
L'affascinante e pixellosa signorina ivi ritratta è la principessa Mariko così come appare nella versione originale per AppleII di Karateka (1984), il "papà" di Prince of Persia (intendo la versione del 1989, che con Karateka conserva pesantissime somiglianze). L'autore è ovviamente Jordan Mechner.

mercoledì 8 agosto 2012

Idaho Transfer, 1973

Girato e rilasciato nel 1973, e dimenticato quasi universalmente già nel 1974, Idaho Transfer è il secondo lavoro (di tre) di Peter Fonda come regista. E di gran lunga il più sfortunato. E' quasi sorprendente come, sepolto nel passato di un uomo di cinema di buona fama (membro dell'onorata famiglia Fonda! e all'epoca reduce da pochissimo dal successo di Easy Rider), ci sia un oggetto così strano e obliato. Eppure.

I.T., noto anche come Deranged nel Regno Unito (probabilmente si provò a farlo passare per un horror) e mai distribuito in Italia, è un film di fantascienza low-budget la cui genesi affonda nei sentimenti pro-ambientalistici di Fonda. La compagnia che doveva occuparsi della distribuzione fallì dopo una settimana di programmazione del film nelle sale, il che tagliò di netto le gambe alle sorti della pellicola. Solo 15 anni dopo, nel 1988, si ebbe quantomeno una pubblicazione su VHS; la sorte non fu molto migliore. Da allora la fama di I.T. vivacchia a stento solo fra pochi appassionati di SF.

Qual è la trama? Allora: in una struttura -finanziata dal governo e presumibilmente top-secret- nell'Idaho meridionale un gruppo di ricercatori, tra cui svariati giovanissimi (tutti under 20), inventa un sistema che permette il teletrasporto di persone tra due macchinari gemelli, uno posto nella struttura e l'altro in una zona all'aperto sempre nell'Idaho del sud. Si accorgeranno ben presto di un interessante side-effect non preventivato: lo spostamento è anche temporale, di 56 anni nel futuro (l'arrivo sarebbe quindi nel 2029). I viaggiatori (che sono tutti giovani perchè -altro side-effect- chi ha più di 20 anni muore poco dopo il viaggio per un'inspiegabile emoraggia renale) fronteggiano così un mondo futuro spopolato e triste, evidentemente modificato da qualche catastrofe imprecisata avvenuta in un momento sconosciuto durante quegli 11 lustri che li separano dalla data di partenza. Nel tentativo di capire cosa sia successo gli scienziati cominciano a raccogliere dati e a studiarli nel presente (perchè il viaggio è possibile anche nell'altro senso).
Tutta questa è in realtà una premessa: di questi fatti non si vede nulla o quasi, ma sono esplicitati nelle prime fasi del film, perlopiù durante un dialogo tra due protagoniste. La storia vera e propria si concentra sulla sedicenne Karen Braden e una dozzina di altri studiosi, di poco più anziani, che si trasferiscono in pianta stabile nel 2029 dopo la decisione improvvisa del governo di chiudere il progetto. Nel desolato pianeta futuro, il manipolo di transfughi si dedica a fare le uniche due cose possibili, ovvero tentare di sopravvivere e cercare superstiti. La vicenda poi prende una brutta piega, ma ne parlerò più avanti.
Grossomodo la storia si può dividere in tre parti:
1. Spiegazione di chi sono e che fanno questi tizi. A svelare tutto è soprattuto Isa, primo personaggio ad apparire sullo schermo, che arruola la sorellina Karen, figura centrale della pellicola, che non vede da lungo tempo. Isa istrusce Karen sul significato e lo scopo della missione, ed è durante i loro dialoghi che scopriamo i principali retroscena dell'esperimento. Questa prima parte termina con la decisione del governo di chiudere tutto e spegnere il macchinario, e con la conseguente fuga nel futuro dei giovani studiosi.
2. La sopravvivenza dei ventenni nel lontano futuro e la loro ricerca di superstiti. E' la parte più lunga e statica del film; la location è il Craters of the Moon National Monument and Preserve, nell'Idaho del sud, e le ambientazioni sono assai suggestive; ma nella monotonia dell'arido paesaggio -seppur affascinante- riecheggia quella delle fasi di esplorazione in cui è bassissima la densità degli accadimenti. Solo una sopravvissuta viene trovata, regredita ad uno stato di idiozia.
3. Si torna a vedere qualcosa nell'ultima parte, che comincia quando Karen decide di lasciare il gruppo di esploratori e di tornare al campo base, dove era rimasto un piccolo manipolo di tre colleghi tra i quali quello di cui è innamorata. Qui viene aggredita da una delle compagne, che è misteriosamente impazzita, ha ucciso gli altri due compagni ed ora è pronta a fare lo stesso con lei. Karen si salva miracolosamente calandosi nel pozzo dove è custodita la macchina del tempo. Questa, in teoria ormai inutile perchè spenta nel presente, è stranamente accesa; Karen, che non ha altre vie d'uscita, entra nel macchinario e torna nel '73. Qui terrorizza un tecnico che stava lavorando (e non viene spiegato perchè) sul marchingegno e la vede apparire dal nulla, poi smanaccia i controlli -dei quali non conosce presumibilmente nulla- per cercare di tornare in un punto del tempo precedente al disastro nel campo base (potendo quindi salvare il suo amore); infine riparte per il futuro dove... ve lo dirò dopo.

Idaho Transfer è strano; gli statunitensi direbbero probabilmente weird. E lo è su più livelli.
Già il cast rappresenta un bell'enigma. E' decisamente piccolo (25 nomi in tutto, mi pare) e composto quasi totalmente, come si è visto, da teenager che devono cercare di passare per studiosi: tra i pochi attori adulti solo uno (il recentemente scomparso Ted D'Arms, qui al debutto) ha un ruolo non troppo marginale, quello di capo del progetto e padre di Karen e Isa Braden. Spicca poi il fatto che oltre a D'Arms solo altri quattro attori abbiano qualche altro titolo nel curriculum: tutti gli altri non si erano mai visti prima e non si vedranno mai più in futuro. Di questi quattro, tre hanno preso parte solo a un altro film oltre I.T. La carriera più dignitosa l'ha avuta uno degli adolescenti, che altri non è che l'allora sconosciuto Keith Carradine, dell'onorata famiglia Carradine (e nella fattispecie fratellastro di David, il Bill di Kill Bill).
Il perchè il film si regga quasi completamente sulle spalle di giovanissimi dilettanti è probabilmente spiegabile con il tentativo di mantenere bassi i costi, ma possibile che Fonda dovesse tenere d'occhio il portafoglio? Mah. Fatto sta che le bizzarrie proseguono.

Le scenografie sono peculiari. Gli esterni, come detto, sono girati nel sud dell'Idaho che è di una bellezza e di una monotonia sconvolgenti: terreno roccioso quasi lunare (soprattutto nella zona del campo base) e sterminate praterie praticamente piatte e vuote. Nella parte centrale del film si contano la bellezza di UNA auto e UN treno (entrambi con un loro macabro segreto) oltre che UNA casa (o forse ricordo male e non c'è nemmeno quella). E questo su vari chilometri quadrati di terreno esplorato. Gli interni sono limitati a un paio di anonimi uffici e all'inquietante stanza che contiene la macchina del tempo, scenografia collocata probabilmente in qualche magazzino abbandonato nella periferia di Boise; la stanza (e i corridoi all'esterno) rendono comunque efficacemente una certa aria di desolazione, soprattutto alla luce della bassa qualità dell'audio e del video del film (a proposito dell'audio: scarso quantitativamente, ma con delle belle idee).

Il finale del film ha spaccato in due la platea: c'è chi lo trova geniale e chi (come me) terribile. Si tratta di spoilerare, ma credo di poter correre il rischio.
Avevamo lasciato Karen mentre tentava di tornare nel futuro. Effettivamente ci ritorna, ma al campo base non c'è traccia di vita. Comincia a girare un po' finchè non si accascia esausta lungo una strada. Dopo poco arriva un'automobile piuttosto futuristica e diventa ormai chiaro che Karen ha impostato il macchinario per mandarla ancora più avanti nel tempo. L'auto si ferma alla sua altezza, ne scende un uomo che la raccoglie e la chiude nel bagagliaio, per poi tornare al volante e ripartire. E si ode Karen prorompere in un urlo lancinante. Chiusura sull'interno dell'auto, dove l'uomo parla con una donna e una bambina di cose che non sono riuscito a capire ma che verterebbero su questioni ambientali.

Il finale è stato apprezzato da non molti, e io rientro nell'altro gruppo. I.T. non è un capolavoro, ma avrebbe senz'altro meritato maggior fortuna e un finale più degno di questo che pare attaccato con lo sputo (finiti i soldi, forse?). Non è chiara la sorte della povera Karen, ma la teoria con più consenso prevede che una ristretta elite di umani tecnologicamente avanzati usi i rari "selvaggi" come carburante per le proprie macchine. Il vero problema di questo finale è che l'atmosfera cozza contro tutto quello che il film ha costruito in precedenza. Guadagna qualche punto comunque per l'inquietantissimo "esto perpetua" (che è anche, ma non solo, il motto dell'Idaho) in fondo ai titoli di coda.

Idaho Transfer è un buon film, consigliabile a chiunque apprezzi le "weirdaggini" e non si lasci spaventare troppo dai film a basso ritmo. Per gli appassionati dei futuri con atmosfere postatomiche (più o meno) questo lavoro dovrebbe essere considerato un cult minore. Le ragazze sono molto carine, valide le scenografie e le musiche. Il recupero non è difficile, dovrebbe persino esserci intero su youtube. Opossum approved, buona visione.

Quattordici, parte 3

Una premessa doverosa: in Quattordici ho voluto l'installazione di due hard disk: un SSD che fa da disco di sistema e un più capiente HD meccanico per i dati

Ora, immaginatevi questa cosa: Windows è il sistema operativo per niubbi, nabbi, utonti, usate pure il termine che volete; Linux è il sistema operativo (lo so, non è un vero OS ma fingiamo per amor di brevità) per espertoni, nerd, geek, hacker. Luoghi comuni a parte, Windows rispetto a Linux è più user-friendly.
Bene.
Su Quattordici ho eseguito tre installazioni di Arch Linux (non sto a spiegare perchè), tutte terminate senza il minimo problema.

Su Windows 7 comincio l'installazione e arrivo alla selezione dell'hard disk. Li vede entrambi senza problemi, cancello le partizioni e i dati da quello SSD (che aveva ancora Arch installato) e... mi becco il messaggio "non si può procedere con l'installazione". Riprovo, idem. Evito l'interfaccia grafica e lancio il setup dal prompt, niente.
Ora, l'hard disk è collegato e funziona (o Arch non si installerebbe e l'installer di Win non lo vedrebbe, e io comunque non ho toccato niente nel case), cazzo di problema c'è? Forse Linux ha "rovinato" qualcosa? Ricostruisco l'MBR, riformatto, ancora nulla. Provo a creare le partizioni NTFS da un installer di Linux (si può fare!) e ancora non viene riconosciuto.

Ne vengo a capo dopo un po' di tempo passato su internet: ebbene, l'SSD è collegato a SATA0, mentre l'HD è collegato a SATA1 (e infatti Arch vedeva correttamente il primo come sda e il secondo come sdb), ma al boot il secondo l'hd era impostato in mdo da precedere il primo, e a Win7 questa cosa non andava giù! E SENZA AVVISARE CHE ERA QUESTO AD INFASTIDIRLO!

Insomma, l'OS difficile si installa senza colpo ferire, l'OS facile fa il puzzone, si mette a frignare e non spiega come procedere :P



Anyway, Win7 installato e ora finalmente Quattordici è operativo. Gnè.

domenica 5 agosto 2012

Quattordici, parte 2

Quattordici ha alcune interessanti feature come 8 giga di RAM e un drive di sistema SSD (chissà quanto durerà...), oltre che un case strambamente traforato come una calza a rete. Nell'ordinarlo, un po' per distrazione e un po' per intenzione, ho dimenticato di acquistare il sistema operativo.
Ora, avevo tre possibilità. Una era quella di continuare a usare XP (che mi andrebbe benissimo, giuro), ma l'unico XP che ho è a 32 bit, il che significa usare meno della metà della RAM che ho pagato (e che intendo usare, pochi cazzi); inoltre XP non riconosce nativamente gli HD sata, e ovviamente gli HD sono sata: dovrei procurarmi i driver che non ho, e piazzarli su dischetti che non potrei usare perchè Quattoridici è il mio primo PC privo di lettori floppy - scelta sofferta, ma nettamente di rottura con un passato con cui ho deciso di chiudere i conti. Modificare il CD di XP per infilarci dentro i driver, scelta possibile ma laboriosa, mi allettava poco e non risolveva il problema dei 32 bit. Comunque la si mettesse, per usare XP occorrevano lavori tediosi di modifiche hardware e/o software per arrivare ad un sistema sottosfruttato.

Così sono passato al piano B e ci ho piazzato Arch Linux per qualche giorno, e devo dire che mi ci sono trovato sostanzialmente bene, a parte casini con i driver video (xf86-video-ati non funzionavano (lo opinioni per questo problema su interenet sono discordanti), e un inquietante problema grafico mi aspettava ad ogni chiusura di X). E a parte anche il fatto che, siccome sono bimbo intelligente, all'inizio ho installato soprappensiero una versione a 32 bit (ergo: ancora RAM dimezzata). La cosa più spettacolare è stata usare finalmente Awesome su un monitor 24" (giuro, mi sono quasi messo a piangere), seguita a breve distanza dal filtro aa di Mplayer sparato fluido a tutto schermo.
Purtroppo su Linux non mi posso fermare, complice la mancanza di due programmi di cui non posso fare a meno (Excel e Photoshop), ergo il destino di Arch era segnato sin dall'inizio. Dopo qualche giorno di linuxità ho finalmente potuto mettere mano a un CD di Win7 64 bit, e prepararmi a tornare sotto la crudele mamma MS.
Ma non era ancora finita.


PS: dopo l'arrivo di Quattordici il povero Cinque, vedendosi ormai sostituito e prossimo alla sepoltura, si è vendicato cercando di tranciarmi un dito mente lo smontavo. Mi raccomando, siate cortesi coi vostri computer, sempre. Perchè loro capiscono.

sabato 4 agosto 2012

Quattordici, parte 1

E' arrivato Quattordici. E che significa?

In principio era Uno. Uno fu il mio primo computer, lo ebbi nel 1997. Il suo arrivo fu rocambolesco: a mia sorella, all'epoca ventenne, occorreva un computer con stampante per stendere le tesine dell'università; mio padre, da sempre assolutamente contrario all'acquisto di un PC, fu costretto a capitolare. Per spendere il meno possibile si accontentò di un ferrovecchio recuperato tramite conoscenze lavorative: un IBM PS/2 del 1989 con monitor 14" in bianco e nero, IBM DOS 3.qualcosa, CPU 286, un mega di RAM. L'audio era unicamente quello dello speaker, l'hard disk disponeva di 58 megabyte. Siccome mia sorella doveva pure stamparle le tesine, il tutto fu accompagnato da una stampante ad aghi B/N rumorosa come una sala giochi e grossa come una cadillac, con cartucce d'inchiostro a nastro (stile macchina da scrivere) ormai da tempo di difficile reperibilità (col senno di poi, questo non si rivelò un grave handicap). Questo era 01, il computer che usavo io quando il resto del mondo procedeva serrato verso i Pentium.
Uno mi servì fedelmente per due anni, garantendomi un sacco di divertimento con MS Editor e soprattutto col Qbasic, poi andò in pensione. Il monitor morì negli anni '00, Uno invece -ancora funzionante- è stato definitivamente trasferito in discarica nello scorso luglio.

Nel 1999 arrivò Due. Passo in avanti? Non proprio. 02 veniva da una discarica, da dove era stato recuperato dal cugino di mio cugino. Era un 486 con Win 3.11, HD di 34 MB (!), non ricordo quanta RAM e un monitor da 15" finalmente a colori. La vita di 02 fubreve e sfortunata, e terminò dopo pochi mesi quando un temporale ne distrusse l'alimentatore (che emise due sonori BOOM durante l'ultimo tentativo di accensione. Tentativo che non andò a buon fine).

La dipartita di Due lasciò finalmente spazio a Tre, il mio primo vero picchio. Tre per la prima volta non era materiale di recupero (almeno sulla carta), ma un PC nuovo; purtroppo proveniva da Computer Discount e la qualità generale lasciava parecchio a desiderare. Tuttavia il procio era un K7 a 650 MHz, l'hard disk sfiorava i 20 giga, la RAMMA (cit.) ammontava a 64 mega (sarebbero un giorno triplicati), finalmente apparivano meraviglie tecnologiche come il lettore CD e schede audio e video. Era ormai il 2000. Tre avrebbe tirato la baracca tra alti e bassi fino al tardo 2005, quando l'hard disk prometteva di morire da un giorno all'altro e Windows 98 ormai non bastava più.

Sarebbe quindi arrivato 05: procio AMD 3500+, 2 giga di RAM, due HD da 80 GB ciascuno, varie ed eventuali. 05 è durato per quasi sette anni, fino ad oggi. Nel corso del 2012 è diventato chiarissimo che anche per lui era ora del meritato riposo, e così ho dovuto metter mano al portafoglio. Ed ecco 14, ovvero Quattordici, che dir si voglia...

PS: il progetto era quello di passare Cinque a muletto, sostituendo Undici (il muletto attuale). In un tentativo di espansione della RAM, però, la motherboard di Cinque ha deciso di smettere di funzionare senza possibilità di recupero. Cinque ha così raggiunto la discarica come tutti i suoi precedenti fratelli. Riposi in pace

Deleted scenes


La collina era il punto più alto del paese. Digradava dolcemente (ma non troppo dolcemente, in effetti) verso la periferia del piccolo centro abitato, distante qualche centinaio di metri, dove erano accalcate alcune palazzine di pochi piani: condomini per piccoli borghesi e grandi proletari, nè brutti nè belli, con le pareti che stingevano al sole mediterraneo anno dopo anno.
Sul fianco del colle due ragazzi di circa tredici anni si crogiolavano al sole del luglio inoltrato, seduti sull’erba, e si passavano a turno un binocolo che puntavano verso una ben precisa palazzina, una ben precisa finestra aperta. Una ragazza dall’età sconosciuta ma apparentemente diciassettenne dormiva su un letto, perfettamente inquadrata nella cornice della finestra, quasi un quadro del Goya dal vero. Ed era una ragazza veramente carina. Ed era seminuda.
La posizione e l’intensità del sole non permettevano una visuale granchè chiara dell’interno giorno, ma per due adolescenti in tempesta ormonale poteva andare bene anche così. I due voyeur in erba proseguirono a scambiarsi oculari e commenti per parecchi minuti.
- Ehi, che direbbe tua sorella se sapesse che le fai questo?
Era stato uno dei due ragazzi a parlare. Non si era rivolto al suo compare, ma a un terzo figuro che era rimasto sdraiato in silenzio, qualche metro dietro di loro, per tutto quel tempo. Era il fratello della bella addormentata, un ragazzo di quindici anni dall’aspetto trasandato e l’aria svogliata. Ascoltò la domanda come se l’avesse già sentita mille volte, e cominciò a rispondere stringendo le spalle.
- Fatti suoi. Se ci pensasse un attimo si renderebbe conto che cani e porci la possono spiare.
- Ma tanto di qua non potrebbe salire nessuno.
- Come no. Intanto noi ci siamo venuti.
- Sì, ma se ci scoprono ci fanno un culo così. – interloquì il secondo guardone.
Era vero. La collina e il territorio retrostante erano proprietà privata. Per quanto i proprietari restassero più entità leggendarie che figure concrete, data la scarsa frequenza con cui solevano farsi vedere, il terreno era recintato. I tre invasori erano penetrati sfruttando il più classico degli stratagemmi: un provvidenziale buco nella recinzione.
- Mi sa che non corre mica tanti rischi. E comunque non hai risposto: se ti scopre che ti fa?
Altra stretta di spalle – Non ho paura di lei.
- Mi sa che fai male. E’ più grande di te e secondo me ti mena senza problemi. Mi hanno detto che è un tipo che picchia.
I due guardoni risero. Il terzo si sentì punto sul vivo, ma sapeva che le ultime due affermazioni erano vere e non poteva farci nulla. L’irritazione lo fece reagire nel modo più istintivo possibile: si tirò in piedi e dichiarò chiusa la seduta di osservazione. I due protestarono, ma l’altro fu irremovibile.
- Trenta minuti. E sono passati. Sganciate e tagliamo la corda.



Mezz’ora, cinque euro a cranio: la tariffa per godere della visione di una ragazzina dalle tendenze ninfomani, che senza ritegno dormiva quasi nuda nel suo letto. Non aveva mai creduto che potesse essere un business valido, ma ben presto si era accorto che era merce piuttosto vendibile. La sorella suscitava un certo fascino (a ragione, doveva ammetterlo), ingigantito dal brivido della spiata proibita, e soprattutto tra i ragazzini più ricchi c’era sempre chi poteva e voleva spendere qualche soldo per afferrare l’illusione di vedersela concessa. Era una strana, embrionale forma di prostituzione.
Ora, da solo, mentre le ombre di fuori già si allungavano, risalì le scale ed entrò in casa. Si infilò poi nella stanza di lei e chiuse la porta, appoggiandovi le spalle e guardando verso terra.
- Quanto hai fatto?
Aveva anche una voce suadente, maledetta.
- Dieci euro.
- Certo che come ruffiano vali pochino, eh?
A volte arrivavano commenti del genere, e lui reagiva sempre con la sua stretta di spalle standard. Ma oggi era nervoso e non gli andava di subire.
- Non è mica sempre un lavoro facile. Te te ne devi stare solo lì sdraiata a farti guardare. Ma per me è più difficile. E tu ti prendi anche più soldi.
- Oh, il lumpenproletarier alza la testa! – lei si alzò a sedere e lo fissò (lui aveva ancora gli occhi sul pavimento) – Povero piccolo. Ricorda che l’idea è stata mia, e il gioco lo dirigo io. Se non ti va puoi metterti in proprio. Quanto pagherebbero i ragazzi per vedere te nudo?
Il discorso di lei e il suo tono canzonatorio, decise lui, erano andati troppo in là. Alzò finalmente lo sguardo.
- Senti, vaffanculo. Non mi piace più questa storia. Non mi è mai piaciuta. Trova un altro scemo come socio.
Lei non sembrava troppo impressionata dalla inedita rabbia del fratello. Rispose con sufficienza – Ti fai troppi scrupoli.
- Non è questo!
- E allora cos’è?
Già, cos’era. Non se ne rendeva bene conto, ma l’idea gli si chiarì d’un tratto. La esalò con un filo di voce.
- Voglio solo un po’ di rispetto.
Lei sorrise e si ributtò supina.
- Mio fratello che pretende rispetto. E sembra quasi dimostrare carattere. Una cosa nuova. Mi piace. Mi eccita. Dì un po’ fratellino… quanto ce l’hai grosso?
La domanda lo scioccò. Ma non quanto il rendersi conto che in fondo sperava da tempo in una richiesta del genere. Prima ancora di riaversi, si accorse di essersi istintivamente tolto i pantaloni, e che era a pochi istanti dal vendere l’anima a sua sorella.

domenica 8 luglio 2012

Hunangofiant

In seguito l'opossum attraversa l'adolescenza col modo di fare di un canguro metallico ai tropici.




Canguri metallici ai tropici, cortesemente forniti dal Kirez.

sabato 7 luglio 2012

Lacune

Fu solo il mattino seguente, quando uscì di casa per andare a prendere la posta arrivata il giorno prima, che Jeremy si accorse che il muro sull’altro lato della strada era stato abbattuto e il panorama dello strapiombo si estendeva ora platealmente davanti a lui. Il muro, che era lì da prima che arrivasse lui, gli aveva sempre celato la vista di quello spettacolo, che era lì da prima che arrivasse il muro. Impalato nel cortile, la posta ancora in mano, Jeremy fissava lo spazio vuoto, e l’oceano sottostante, convinto che il mare ricambiasse lo sguardo con un odio che, per quanto gli pareva, doveva essere immotivato.
Dopo un paio di minuti riguadagnò l’ingresso di casa camminando all’indietro e sentendosi ridicolo ad ogni passo di più, e durante la giornata si sorprese più volte a sbirciare da dietro le tende la nuova visuale, in attesa che l’oceano -che la prospettiva gli rendeva ora invisibile- si ribellasse improvvisamente per tutti quegli anni di insensata prigionia.

giovedì 21 giugno 2012

Ho ceduto

Ebbene sì: sono social.

Ma sul lato oscuro.

mercoledì 20 giugno 2012

Black candy floss

Credo valga la pena di commentare uno dei più grandi eventi nel campo della musica italiana degli ultimi... boh, non lo so degli ultimi cosa. Mi riferisco comunque alla sorprendente dissepoltura di Mauro Repetto da parte di Max Pezzali, come parte dei festeggiamenti per il ventennale del primo successo degli 883 Hanno ucciso l'Uomo Ragno.

Il Pezzali, che ha fiuto per gli affari, non ci ha messo molto a comporre una rievocazione storica che, da quel che posso intuire a naso, travalica in trash persino i suoi esordi. Nel 1991 (che è anche l'anno in cui ho scoperto Elio e le Storie Tese, per inciso, grazie al famigerato incidente del concerto del primo maggio con Sabbiature; avevo undici anni (bei tempi)) gli 883 davano alle stampe il loro primo lavoro, il singolo Non me la menare, che presentarono al Festival da Castrocaro. Per caso vidi quell'edizione in TV, alla quale -ricordo distintamente- partecipavano anche i Tiromancino in formazione preistorica con l'orrida Cappuccetto Rosso; ero convinto che Pezzali e Repetto avessero in realtà cantato Pappagallo, ma mi dicono che m'inganno (anche perchè Pappagallo è più recente).
Comunque sia, l'anno dopo gli 883 pubblicano il loro primo album, Hul'UR per l'appunto, che contiene tante cosine simpatiche per gli adolescenti di allora. Non ho mai avuto un vero trasporto per il gruppo [?] pavese, ma ricordo con discreta simpatia gli esordi e i primi anni. E posso dire di aver avuto il dubbio privilegio di vedere passare, sulla gloriosa e mai dimenticata VideoMusic, il videoclip di Baciami qui. Correva il 1995. Mi auguro sappiate di cosa sto parlando. Ma forse è meglio di no.

Oggi Pezzali ripubblica Hanno ucciso l'Uomo Ragno (nel senso dell'album) con l'apporto di un nutrito gruppo di rappatori italici, ognuno dedicatosi al remix di uno dei brani del disco originale. Non ho ascoltato una singola nota e non ci tengo a farlo; degli otto prescelti gli unici che "conosco" sono i Club Dogo -che non sopporto minimamente-, degli altri sette ignoro ogni cosa e mi beo della mia ignoranza. Da buon prevenuto, basandomi sui pochi dati raccolti, etichetterò il disco come "merdata per fare soldi facili" (<- opossum's seal of approval!) e tanti saluti.

In realtà volevo soprattutto parlare del buon Mauro. Dato per anni come disperso in quel di EuroDisney, oggetto di leggende metropolitane che manco Paul McCartney si può permettere, di Repetto non si sapeva nulla di certo dal 1995. Abbiamo dovuto attendere proprio il ventennale del cadavere di Spiderman per scoprire che il biondino muto è vivo e vegeto e -sorpresa!- lavora davvero a EuroDisney. Senza tediarvi coi dettagli della sua vita, ormai facilmente reperibili in rete, mi limiterò a sottolineare la giustizia poetica della sua riesumazione per i festeggiamenti pezzaliani. A onor del vero Max ha ormai da tempo tradito ogni spirito 883esco, affossando quei ricordi in cambiamenti (estetici e musicali) sempre più inquietanti benchè inevitabili; quasi lecito quindi attribuire implicitamente alla sua spalla muta, perennemente congelata nel ricordo dei primi anni '90, la vera essenza residua del duo pavese.
Suo malgrado Repetto si trova invischiato nell'unico singolo del nuovo album, Sempre noi, in cui si mescolano sapientemente musiche loffie, un testo particolarmente poco ispirato e una collaborazione deprimente con un Aleotti ormai totalmente allo sbando (a cui comunque la canzone veste a pennello, sia per le sonorità pessime sia perchè ormai da lustri nei suoi argomenti sembra non saper fare altro che alternare "noi siamo fighi perchè eravamo sfighi" al trittico "una volta qui era tutta campagna, si stava meglio quando si stava peggio e non ci sono più le mezze stagioni"). Il buon Mauro ci mette solo la faccia -proprio come una volta- non emettendo un solo fiato: appare nel video, in una sala-karaoke dove non karaoka perchè doppiato da Max, e probabilmente si prende una sua piccola rivincita mostrando come il tempo, verso i suoi capelli e la sua stazza, non sia stato poco clemente come con l'ex-socio. Quest'ultimo, dal canto suo, pare (mi dicono) non abbia tributato alla vecchia spalla che qualche minimo riconoscimento (giusto il suo nome nei credits delle canzoni e basta). Ma credo che non sia questo ciò che conti realmente per Repetto, quanto le royalties che doverosamente gli spettano.

Bravo Mauro, è stato bello rivederti; ora levati pure dalle balle.
E portati pure dietro l'altro pirla.

sabato 9 giugno 2012

Ipse scripsit

Ricordate Le distorte conseguenze della saggezza?

Riassunto della storia: tre baldi scrittorucoli (un matematico... un tipo di matematico diverso... e uno statistico - cit.), uno dei quali è l'opossum vostro affezionatissimo, aprono un blog e pubblicano racconti senza ambizioni di Pulitzer.

Gli stessi tre parolai stanno elaborando un'idea che vorrebbe portare altri entusiasti versificatori dilettanti a pubblicare roba da noi. Se siete lettori di questo bleurg, e magari anche di Ldcds, ed avete il vostro capolavoro personale in un angolino dell'HD che volete condividere con il mondo, fatemelo sapere che ne parliamo.
Ldcds non ha i numeri dei siti del Corsera o di Repubblica (tanto per far due nomi), ma ha già qualche mesetto di vita e il suo piccolo seguito, e può offrire un poco di visibilità.
E ci sono Kirez e Slon che sono figaccioni e dareste tutto per farvi vedere in giro con loro e dire "Ehi, io pubblico storie sul loro sito!".

La parola magica: lo facciamo GRATIS!


(Occhio però, chiarisco subito un paio di cose: ospitiamo soltanto -non forniamo quindi le chiavi di accesso al blog, tutto deve passare per noi tre "fondatori"- e ci riserviamo di non pubblicare materiale che per qualsivoglia motivo non ci aggrada. Non pretendiamo invece l'esclusiva della pubblicazione: potete mettere il vostro testo dove altro vi pare. Per ogni altro dubbio, sapete dove trovarmi).

mercoledì 30 maggio 2012

Not so amused


grazie a Fedyx

giovedì 24 maggio 2012

Una sconfitta

Questo lungo brano (lungo per gli standard di questo bleurg, s'intende) nasce originariamente per essere pubblicato su Le distorte conseguenze della saggezza, dove è apparso separato in quattro parti. La base della storia è quella del bellissimo mito greco di Orfeo ed Euridice, che ho voluto provare a riproporre in un qualche modo (un qualsiasi modo). Non sono soddisfattissimo di quello che è uscito, ma ho preso la cosa molto più alla buona di come avrei dovuto, e date le premesse poteva uscire un risultato persino peggiore.
Come di consueto ripubblico il mio materiale anche di qua, ma stavolta fuso in un unico sfiancante grumo pseudoletterario (ma comunque con le quattro parti chiaramente marcate). Se vi piace (ah, villici) fate un salto su ldcds, che ci sono Slonna e il Kire che loro scrivono mica male.
Buon divertimento.


La genesi di un recupero [i]
Per quanto si potesse far viaggiare lo sguardo dal battiscopa al soffitto e attorno alle pareti, la stanza appariva grigia e ruvida quanto un rifugio partigiano. E umida quanto una trincea in un giorno di pioggia. Essenziali i mobili, poche le suppellettili; nudi e scabri i muri, che avevano visto il loro ultimo imbianchino in tempi dimenticati ed erano lievemente ammuffiti e percorsi da rade ma inquietanti tracce di sgocciolamenti, segni verticali di gocce che erano penetrate in giorni di forte pioggia ed avevano passeggiato indisturbate verso il pavimento in cerca di un bel posto asciutto dove morire. Era l’ultimo piano, sopra di lui solo il tetto. Poteva supporre fosse fatto di carta velina, e per quel che vedeva poteva pure essere vero.
Non c’era bagno. I servizi stavano fuori, in fondo al gelido corridoio sul quale la stanza si affacciava e dal quale era separato da una porta che, soprannaturalmente in quella trascuratezza, era il solo oggetto in sorprendente buona salute. La porta avrebbe ragionevolmente difeso ogni cosa contenuta nel locale. I muri davano meno affidamento.
Un albergo poco ospitale, senza dubbio. Ma era così che voleva.
Lui, sdraiato supino sul letto, completamente vestito -solo le scarpe giacevano accanto sul pavimento- fissava il grigio soffitto sopra di sè, gomiti in fuori e mani sotto la testa: la più classica delle fisionomie, per un uomo pensieroso sdraiato sulla schiena. Era lì già da qualche ora, e c’era tutta l’apparenza che qualcun’altra ne sarebbe trascorsa prima che qualcosa mutasse nella sua posizione. Finora solo l’irregolare battito delle palpebre e il costante lavoro del diaframma indicavano presenza di vita nel suo corpo.
Passò qualche tempo, ma non poi troppo, prima che lui girasse la testa verso sinistra: la prima iniziativa che avesse preso da quando si era gettato sul letto. A sinistra stava la finestra, da cui un chiarore da cielo lattescente penetrava a rischiarare quell’atmosfera beckettiana.
Dopo un respiro più forte si alzò. Il tempo del pensiero era finito e si mutava in quello dell’azione.
Si disinteressò delle scarpe, che peraltro stavano dall’altro lato del letto, e con severo sprezzo dell’incolumità dei propri piedi camminò sulle nude mattonelle fino alla finestra. La spalancò sul giorno nascente. La posizione era sopraelevata e la vista inaspettatamente dolce, in contrasto col luogo dal quale si affacciava: un vasto cortile pubblico, seguito da un fiume, seguito da una periferia qualunque di edifici rozzi e poveri ma a loro modo dignitosi.
Dopo aver guardato il panorama per qualche minuto, senza peraltro vederlo, abbassò gli occhi sul piazzale sterrato che si stendeva diversi metri più sotto. Il tempo del pensiero era finito, lo sapeva già. Abbassò le mani sul davanzale e scavalcò.
Pochi secondi, e fu dall’altra parte.

Mobilitat mortis [ii]
Le scarpe erano rimaste in albergo, e ok. Così la strada la doveva fare tutta a diretto contatto col suolo, perchè si trattava di camminare -e anche tanto-, piante a terra e niente lamenti. Scoprì che la cosa era sorprendentemente facile. Le pietre squadrate su cui procedeva sin dall’inizio non erano il massimo della comodità, per i piedi, ma ancora non sentiva dolori o fastidi. Forse che essere morti facilitava le cose? Poteva solo supporlo.
Era sceso per una scala a chiocciola dai larghi gradini in pietra e dall’ampissimo raggio, nell’oscurità quasi completa, senza sapere come si fosse ritrovato lì. La scala saliva e scendeva nel buio. Prese per il basso e scese parecchio prima di toccare infine il suolo. Fu sorpreso di vedere che la scala aveva termine ma, si dise poi, doveva pur essere così.
Ancora nero tutto intorno e pietroni come terreno. Intuiva attorno a sè la vastità dello spazio, sebbene invisibile, ma con la strana sensazione di non trovarsi all’aperto. Un luogo chiuso con le pareti a giorni di distanza fra loro. Possibile?
E perchè mai avrebbe dovuto essere impossibile?
La marcia riprese, anche se non sapeva proprio da che parte dovesse andare. Semplicemente si allontanò dalla scala prendendo una direzione qualsiasi, per quello che gli parve qualche giorno di ininterrotto cammino su quella superficie piatta e tutta uguale, nell’oscurità quasi totale. Fu senza preavviso che ad un tratto la terra gli mancò sotto i piedi: al buio non aveva potuto vedere che il terreno finiva, e cadde in quella che aveva tutta l’apparenza di essere acqua, con un capitombolo da commedia del muto.
Si riarrampicò imprecando sull’asciutto – c’era un dislivello di trenta centimetri – e si distese. Non poteva vedere quasi nulla, ma lo specchio d’acqua non era un ostacolo da affrontare alla leggera, lo sapeva. Come sapeva che per ora non poteva più fare nulla.
Era di nuovo impotente, intrappolato nei meandri dell’attesa. Restò sdraiato e zuppo, senza muoversi. Se non altro, non sentiva freddo.
L’attesa si protrasse per parecchio, ma lui aveva già da un bel po’ rinunciato a farsi un’idea di come scorresse il tempo da quelle parti: senza riferimenti esterni doveva basarsi sulle sue sensazioni, che di certo erano completamente inattendibili. Era ancora sdraiato ma si era ormai asciugato, e cercava di cogliere qualche indizio di vita nel vuoto che lo circondava. Ne sarebbe ben dovuto arrivare uno, prima o poi. E infatti arrivò. Si rialzò a mezzo e fissò il nero davanti a sè.
Era un rumore vago e acquoso: qualcosa che si muoveva nel bacino di fronte a lui. Aspettò, e sentì il suono crescere. Ancora un po’, e un bagliore spezzò debolmente l’oscurità. E quando rumore e luce furono vicini potè finalmente vedere una zattera, una lanterna, un remo e, soprattutto, il proprietario di queste tre cose. Vecchio, pareva vecchio: e aveva ben ragione di esserlo. Era grigio, smunto, pallido, estremamente trascurato nell’aspetto. Ma gli occhi erano curiosi e vitali, e le mani manovravano il remo e la barca senza sforzo.
Il vecchio lo guardava con una certa tranquillità. Lui era ancora semisdraiato, e stentava a decidersi ad alzarsi. In quel teatro crudelmente insensato le due surreali creature restarono a fissarsi per un po’.

Αχέρων [iii]
La zattera procedeva senza fretta particolare, al ritmo delle tranquille remate del traghettatore. Lui si era seduto alle sue spalle, senza una parola, quando -ancora sulla riva- il vecchio aveva girato la misera imbarcazione. Nell’anziano non pareva  ci fosse la minima curiosità verso il suo passeggero, che dal canto suo aspettò il momento in cui il rematore avrebbe detto qualcosa. Il momento non venne e anzi sembrava non dover mai venire. Per cui.
- Quanto è largo questo lago?
La risposta venne da una voce sorprendente. Sorprendentemente normale: – E’ un fiume.
- Un fiume? – Era davvero sorpreso – E’ vastissimo.
- E’ quanto basta.
Non era granchè come interlocutore, certamente. Lui aspettò invano che la discussione continuasse, ma l’accompagnatore rimaneva taciturno e si sentì costretto a riprendere l’iniziativa. Quel silenzio lo sfiancava, e ne aveva avuto anche troppo ultimamente.
- Mi sarei aspettato di vedere più movimento.
- E perchè mai?
- Beh, muore tanta gente…
- E tanta gente vive. Ma lo stesso il vostro mondo è in gran parte deserto.
La logica gli pareva fallace, ma non fece in tempo a protestare, perchè stavolta fu il vecchio a riprendere.
- Come ti chiami?
Fu preso alla sprovvista. Gli disse il proprio nome.
- E perchè sei qui?
Non sapeva se rispondergli. Non trovava una sincera curiosità nel tono di voce, che restava completamente neutro. Per di più parlava alle spalle del traghettatore e non poteva scrutarne il viso per farsi un’idea dei suoi pensieri. Qualora ve ne fossero, ovviamente. Giocò la carta della verità.
- Io… Conoscete la storia di Orfeo ed Euridice?
Ci fu silenzio per alcuni secondi.
- No.
- E’ una vecchia leggenda di amore e morte.
- La posso immaginare. Oppure non posso. O magari non voglio. Lascia stare. Tutte le storie sono uguali.
Rimase piccato, nonostante un certo sollievo. – Siete diverso da come mi aspettavo, sapete?
- Sapevi di me?
- Siete molto noto. Un vecchio italiano vi incontrò e scrisse di voi.
- So di chi parlate. Che disse di me?
Quando sentì la risposta l’anziano abbandonò per la prima volta il proprio distacco e scoppiò in una rauca risata. Si fermò per mormorare: – Caron dimonio dagli occhi di bragia… lo sapevo che ne aveva di fantasia. – e riprese a ridere.
Il suo ospite ne fu sollevato. Aveva temuto di offenderlo. La risata dello psicopompo lo aveva rincuorato, e pose una domanda che lo tormentava dall’inizio del viaggio.
- Mi hanno detto che si può tornare.
- Ti hanno detto il vero. Tornare è possibile. Non impossibile. E non certo.
L’eco dell’ultima vocale non si era ancora spento che la zattera toccò qualcosa. Era l’altra riva. Il traghettatore si voltò verso il suo passeggero. Lo sguardo lo invitava a scendere.
Passò sul terreno. Era a disagio, cercava il modo più semplice per accomiatarsi: – Devo lasciare un obolo? Temo…
Il rematore lo fissò. Occhi mortalmente seri. – Molti sono scesi quaggiù, in tempi lontani, pensando di poter pagare i miei favori con i loro strani simulacri metallici. Quegli oggetti tappezzano il fondo del fiume su cui siamo, se quel fondo esiste, cosa che personalmente ignoro. Io non sapevo che farmene. Ora ascolta. Forse ti ho mentito o forse no. Forse ho sempre saputo chi sei. Forse conosco meglio di te le strane storie che citi, e forse non ho mai incontrato poeti, o anche proprio nessuno prima di te. Forse non ho incontrato nemmeno te.- S’interruppe. Lui si sentiva gelare. Lo psicopompo riprese: – Continua a camminare, allontanati dalla riva. Forse troverai quel che cerchi.
- Non mi augurate buona fortuna?
- Perchè mai?
La zattera si allontano dalla riva. Un minuto dopo non esisteva già più.

Una sconfitta [iv]
Ora non sapeva dove si trovasse. Nè come ci fosse arrivato. L’ultimo ricordo era il salto dalla finestra, e anche se ricordava che qualcosa fosse successo dopo allora, non gli veniva in mente niente di quel “qualcosa”. Nel momento in cui era entrato nella stanza in cui era seduto aveva dimenticato tutto.
Non poteva fare a meno di pensare che questa amnesia dovesse avere un qualche significato.
La stanza era piccola e spoglia, e molto male illuminata. Per quanto surreale apparisse la cosa, aveva l’aria di un classico soggiorno di una comune casa d’abitazione, anche se un po’ povera. Si rendeva ora conto che non rammentava per niente l’aspetto esterno della casa.
Era seduto a un tavolino, accanto ad un uomo dall’aria cordiale che gli stava versando del tè. Non ricordava chi fosse costui. Era tutto stranissimo, e un’ansia feroce prese a divorarlo internamente.
Il suo ospite ora sedeva di fronte a lui e lo guardava pensosamente; sembrava in attesa. Pensò che fosse il caso di fare la prima mossa.
“Io sono…”
Un gesto dell’altro lo zittì. Poi l’ospite parlò a sua volta; l’espressione e il tono di voce rivelavano un profondo dispiacere.
“Lo so chi sei, come so perchè sei qui. So che hai voluto dare ascolto ad una antica leggenda per venire fin qui e riuscire a riappropriarti di quel che ritieni tuo. Ma da questo viaggio tornerai a mani vuote. Poeti e cantori di ogni epoca e luogo hanno raccontato di amori sopravvissuti alla morte e di eroi che hanno affrontato ogni pericolo per poter inseguire un sogno; ma quelle sono leggende e questa è la realtà, e la realtà è che non c’è speranza. La realtà è che lei ti ha dimenticato.”
L’ultima frase suonava come una sentenza. Lo colpì come una sassata.
“Così è” proseguì l’ospite “lei non ti appartiene più. Questa è la morte, ed è un luogo di vuoto e desolazione, e chi lo abita -come lo abita lei- non ha che di queste due cose, e nient’altro. Ti sei spinto fin qui assai coraggiosamente, e ti sei ben comportato, ma più avanti non andrai, perchè non sarebbe bene e non servirebbe a niente. Ora ti devo pregare di lasciare questo luogo.”
Sentiva la gola arida. (Davanti a lui la tazza di tè era ancora intatta, ma se l’era completamente dimenticata). Ugualmente parlò.
“Chi mi ha preceduto ha avuto almeno una piccola possibilità. E a me viene negato tutto.”
L’ospite aveva ancora la sua voce desolata. “Tale è la verità: che nessuno ti ha mai preceduto. Hai inseguito fantasmi che non ti hanno portato a nulla se non a un cammino intricato ed inutile. Ora tutto è finito.”
Lui, sopraffatto dal dolore, chiuse gli occhi, e l’oblio scivolò nella sua mente.
Riaprì gli occhi su pareti bianche (da quanto non vedeva qualcosa di quel colore?). Cicalini di macchinari rumoreggiavano accanto a lui, e si rese conto di essere sdraiato in un letto, immobile e con tubi vari che uscivano ed entravano dal suo corpo.
Un ospedale. Era quindi vivo? Sentiva dolori ovunque, e ritenne che fosse una prova sufficiente.
Non capiva cosa fosse successo finchè gli occhi non gli caddero sulle sue scarpe, assurdamente appoggiate sul comodino accanto al letto. Ricordò allora lo squallido albergo, la finestra, il volo.
Cominciò a piangere.

venerdì 20 aprile 2012

Leggèro lèggere

Terminata domenica scorsa la prima edizione di Per un pugno di libri post-abbandono di Marcorè, vale la pena di ricapitolare brevemente il tutto e dare un giudizio sull'andamento della stagione, soprattutto di come se l'è cavata la Pivetti.
STUDIO
Fortunatamente qualcuno si è accorto che lo studio in cui i nostri erano stati relegati l'anno scorso era nei fatti poco più che un bugigattolo, e li hanno tirati fuori di lì. Lo stanzone di quest'anno era veramente grande - pure troppo forse: la Pivetti e Dorfles sembravano essere separati dai concorrenti da un autentico abisso. Lo studio comunque era veramente bello. Si può dibattere sul fatto di aver cambiato la disposizione degli studenti, non più ai lati opposti a fare ala ai conduttori (situazione che preferivo) ma affiancati e messi di fronte a P/D; ma sono inezie.
CONCORRENTI
Introdotta una antipatica novità quest'anno: gli studenti si sono sfidati a chi ce l'aveva più lungo. Non so bene perchè. Dopo un po' era sfibrante vedere 'sti ragazzi vantarsi di aver vinto ricchi premi e cotillons in concorsi culturali vagamente profumati di Nobel; forse c'era un intento educativo sotto per gli spettatori: non essendo più dell'età adatta, non indago. Anche quest'anno le femmine sono state numericamente ben più che sovrabbondanti.
VERONICA PIVETTI
Improbo compito il suo. Nonostante le prime quattro annate di PuPdL fossero state condotte da Patrizio Roversi, è con Neri Marcorè che il programma è ormai universalmente identificato, e Marcorè è davvero bravo. Tutto sommato la milanese non se l'è cavata male, nonostante un inizio un po' a rilento; il computo finale è però tutto a favore del marchigiano, e dubito che in eventuali annate a seguire il divario possa colmarsi. La Pivetti dopo un po' diventa stucchevole nel ripetersi dei suoi clichè (come la svogliatezza nel dare le regole delle prove, "tanto le regole le conoscete..."). Promossa con riserva.
DORFLES
Dorfles.
NOVITA'
Tolto il sistema delle puntate, reintrodotto quello di dare semplicemente punti per ogni prova vinta. Meno originale, ma personalmente il sistema a puntate non mi aveva troppo convinto. Come giochi, il primo e l'ultimo erano esattamente uguali (P/D leggono un brano togliendo una parola, gli studenti devono trovare la parola rimossa), quindi a che pro? Il resto tutto ok. E, finalmente, svecchiata un po' la lista del FUori gli autori.
CONTORNO
La Rai sembra credere sempre meno in questo programma, quest'anno partito addirittura a dicembre senza pubblicità. Con gli anni sono sparite parecchie cose belle: gli accompagnatori famosi, i critici che commentano il libro del giorno (ora tutto ricade su Dorfles), i coconduttori ridotti prima al solo Ratti e infine a proprio nessuno. Lo sgabuzzino dell'anno scorso pensavo fosse una malcelata condanna: "non ci sono più soldi per gli ospiti, quest'anno nemmeno per lo studio, l'anno prossimo neanche per il programma". A sorpresa, come detto, lo studio si è riallargato. Gli ospiti invece non sono tornati, ma chissà...
CAMPANE
Erano quelle del musichiere! Sapevatelo.

domenica 1 aprile 2012

Illunois

Arrivarono sul posto e non videro traccia di ciò che speravano ardentemente di trovare, fossero ori luccicanti o promesse di un nuovo mondo. Percorsero palmo a palmo la nazione, dalle stradine dimenticate nei paesini più squallidi alle arterie centrali delle grandi capitali, sconfinarono nei paesi vicini e si tuffarono nei laghi. I loro sforzi non furono mai premiati.
Si ritrovarono infine a fissarsi desolati negli occhi, seduti in un vicoletto sudicio, nel cuore di una notte uguale a tutte le altre. Una fitta pioggerellina li irrideva.
Decisero di tornare indietro.

martedì 27 marzo 2012

Siam tre piccoli personalin



Da sinistra: Freedos, Arch Linux, Windows 7

venerdì 2 marzo 2012

Ma quanto sono nerd?

E' TUTTO TESTUALE! (anche se sotto c'è awesome).

lunedì 13 febbraio 2012

Sassi

"Il pendolo insensibilmente va traviando dalla prima sua gita".
La frase di Galilei si formò senza motivo nella sua mente, mentre pensava ad altro. Appoggiato di sbieco a un palo, sul terrazzo, lo sguardo intento ad osservare il cielo nella notte illune. Fumava lentamente e guardava una stella di cui non sapeva assolutamente il nome (forse Canopo? Non ricordava). Sotto i suoi piedi pulsavano vari piani d’ospedale. La sigaretta moriva tra le sue dita. Sua moglie moriva di parto là sotto da qualche parte.
Provava a pensare ma non era facile. Era stato un matematico, ed anche bravo, a dispetto di un destino che l’aveva voluto semplice insegnante in quel remoto angolo di mondo. La matematica l’aveva aiutato in parecchie cose, ma non l’aveva preparato all’amore o alla morte o al coraggio. Aveva seguito una donna fin lì, e per lei ci era rimasto, ed aveva rinunciato. Ed era stato imprevedibilmente felice.
La fine ora forse si avvicinava, e di nuovo non era preparato: doveva tornare da lei, ma scoprì di non esserne capace. Gli ultimi fiocchi di cenere gli caddero sulle scarpe. Lui rimase appoggiato nel gelo della notte.

venerdì 3 febbraio 2012

Comunicazione di disservizio

Nasce il blog Le Distorte Conseguenze della Saggezza, progetto nato completamente allo sbaraglio dove un artista, un artista e il sottoscritto scriveranno... non si sa bene cosa, ma senz'altro vale la pena di vedere dove si va a parare. Buon divertimento.


giovedì 5 gennaio 2012

domenica 1 gennaio 2012

1

Questo blog non esiste.
Nato su MSN Space nel 2005, morto, rinato su Splinder, trasferito qui. Il motivo del trasferimento è, al momento in cui sto scrivendo, noto a tutti: Splinder è condannato allo spegnimento (a fine mese) e tutti gli utenti stanno smobilitando.
L'ultimo post su quel blog è questo:


Da qualche tempo Splinder funziona maluccio. Non è un caso.
In home page è apparso un messaggio che informa che tra due mesi (il 31 gennaio) la piattaforma verrà dismessa.

I gestori hanno comunicato che quanto prima forniranno informazioni su come recuperare il materiale ed eventualmente trasferirlo da qualche altra parte.
Personalmente, dubito che ci siano (e che possano crearsi) i presupposti per far nascere una terza volta questo bleurg. Ne consegue che Opossum's landscape (il mio unico figlio!) se ne andrà probabilmente nel dimenticatoio alla morte di Splinder.

Ergo, se ancora qualcuno legge qui sappia che ne ha ancora per poco. E' stato bello. Aloha.



Ci ho riflettuto. A dispetto di quello che ho scritto, ho alla fine deciso di continuare. Ho ripulito tutti i contenuti più sordidamente emo e ho portato di qua le cose a cui sono rimasto più legato. Forse posterò con meno frequenza. Si vedrà. Ma persevererò nella mia missione: occupare indebitamente spazio web senza dare troppo nell'occhio.